Il Peso dell’Onore . Морган Райс
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу Il Peso dell’Onore - Морган Райс страница 2
This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.
Jacket image Copyright breakermaximus, used under license from Shutterstock.com.
“Se perdo il mio onore, perdo me stesso.”
CAPITOLO UNO
Theo volava verso la campagna, spinto da una rabbia che non era più in grado di trattenere. Non gli interessava più quale fosse il suo bersaglio: l’avrebbe fatta pagare all’intera razza umana, all’intera terra di Escalon per la perdita del suo uovo. Avrebbe distrutto tutto il mondo fino a che non avrebbe trovato ciò che stava cercando.
Theo era straziato dall’ironia di tutta la situazione. Era fuggito dalla sua terra natia per proteggere l’uovo, per risparmiare a suo figlio l’ira degli altri draghi, tutti minacciati dalla sua nascita, dalla profezia che quel cucciolo sarebbe diventato il capo di tutti i draghi. Tutti avevano desiderato distruggerlo e questo Theo non avrebbe mai potuto permetterlo. Si era battuto contro i suoi compagni draghi, era stato gravemente ferito nello scontro, se n’era andato, ferito, volando per migliaia di chilometri al di sopra di molti grandi mari fino ad arrivare lì, in quell’isola di umani, in quel luogo dove gli altri draghi non sarebbero mai venuti a cercarlo. E tutto per trovare uno riparo sicuro per il suo uovo.
Ma quando era atterrato, Theo aveva messo l’uovo sul remoto suolo della foresta rendendosi vulnerabile. E l’aveva pagata cara venendo attaccato e ferito dai soldati pandesiani, costretto a fuggire di fretta abbandonando l’uovo e aiutato solo da quell’umana, Kyra. In quella confusa notte, nel mezzo della tempesta di neve e dei venti che infuriavano, non era più stato capace di ritrovare l’uovo, sepolto nella neve. Aveva voltato in cerchio più volte, era ripetutamente tornato sul posto, ma niente. Era stato un errore per cui si odiava, un errore per il quale biasimava la razza umana e per il quale mai e poi mai avrebbe perdonato.
Theo volò ancora più veloce, aprì le enormi fauci e ruggì di rabbia, un ruggito che fece scuotere gli alberi. Quindi soffiò un fiume di fiamme, così caldo da far arretrare addirittura lui stesso. Fu un getto enorme, abbastanza forte da spazzare via un’intera città, e andò a colpire un bersaglio a caso: un piccolo paesino di campagna che aveva avuto la sventura di trovarsi sul suo cammino. Là sotto alcune centinaia di umani, sparpagliati tra fattorie e frutteti, non avevano idea della morte che stava per raggiungerli.
Sollevarono lo sguardo con i volti paralizzati dall’orrore mentre le fiamme scendevano verso di loro, ma ormai era troppo tardi. Gridarono e corsero per salvarsi, ma la nube di fuoco li raggiunse. Le fiamme non risparmiarono nessuno: uomini, donne, bambini, contadini, guerrieri, tutti quelli che correvano e tutti quelli che restavano immobili. Theo sbatté le sue grandi ali e incendiò ogni cosa: le loro case, le loro armi, il loro bestiame, i loro possedimenti. L’avrebbero pagata tutti, fino all’ultimo.
Quando Theo alla fine tornò verso l’alto, non era rimasto nulla. Dove prima si trovava il villaggio ora c’era solo un enorme incendio, fuoco che presto avrebbe ridotto tutto in cenere. Theo pensò: dalle ceneri gli uomini sono stati generati e cenere torneranno.
Non rallentò. Continuò a volare restando basso verso terra, ruggendo, eliminando progressivamente gli alberi, prendendo i rami con gli artigli e facendoli a brandelli insieme alle foglie. Volava all’altezza delle cime degli alberi creando un sentiero, sempre continuando a sputare fiamme. Mentre avanzava lasciava dietro di sé una lunga scia di fuoco, una cicatrice sulla terra, una strada di fiamme per cui Escalon si sarebbe sempre ricordata di lui. Incendiò grandi porzioni del Bosco di Spine sapendo che per migliaia di anni non sarebbe più ricresciuto nulla, sapendo di lasciare sulla terra quella grande ferita e provandone una certa soddisfazione. Si rese conto, anche mentre sputava fuoco, che quelle fiamme avrebbero potuto colpire e bruciare l’uovo stesso. Ma ciononostante, sopraffatto dalla rabbia e dalla frustrazione, non era in grado di fermarsi.
Mentre volava, gradualmente il paesaggio cambiava sotto di lui. Boschi e prati lasciavano il posto a edifici di pietra. Theo guardò in basso e vide che stava volando al di sopra di un’ampia guarnigione, piena zeppa di migliaia di soldati dalle armature blu e gialle. Pandesiani. I soldati guardarono il cielo terrorizzati e confusi, con le armature che scintillavano. Alcuni, quelli più arguti, fuggirono. I coraggiosi rimasero sul posto mentre lui si avvicinava, tirandogli contro le loro lance e giavellotti.
Theo soffiò e bruciò tutte le armi a mezz’aria facendole ricadere a terra in una pila di ceneri. Le fiamme continuarono a scendere fino a raggiungere i soldati che ora stavano fuggendo, bruciandoli vivi, intrappolati nelle loro lucide divise di metallo. Theo sapeva che presto quelle armature sarebbero diventate dei gusci arrugginiti abbandonati a terra e la guarnigione sarebbe stata ridotta a un enorme calderone di fuoco.
Theo andò avanti, volando verso nord, incapace di fermarsi. Il paesaggio cambiava continuamente e lui non rallentò neppure quando scorse una cosa curiosa: lì sotto, in lontananza, apparve una creatura enorme, un gigante che sbucava da un cunicolo scavato nel terreno. Era una creatura diversa da quanto Theo avesse mai potuto vedere in vita sua, una creatura potente. Eppure non provò alcuna paura: al contrario si sentì pervadere dalla rabbia. Rabbia perché quell’essere si trovava sul suo cammino.
La bestia sollevò lo sguardo e sul suo volto grottesco apparve la paura mentre Theo volava più in basso. Anche il gigante si voltò per fuggire, per tornare al buco da dove era emerso. Ma Theo non l’avrebbe lasciato fuggire così facilmente. Se non poteva trovare suo figlio, allora li avrebbe distrutti tutti, uomini e bestie senza differenza. E non si sarebbe fermato fino a che tutti e qualsiasi cosa a Escalon non fossero stati spazzati via.
CAPITOLO DUE
Vesuvio si trovava nella galleria e sollevò lo sguardo verso i raggi di luce che lo illuminavano, luce del sole di Escalon. Si crogiolò nella più dolce sensazione mai provata in vita sua. Quel foro in alto sopra di lui e quei raggi che lo colpivano rappresentavano una vittoria più grandiosa di quanto avrebbe mai potuto sognare, il completamento del tunnel che aveva immaginato per tutta la sua vita. Altri avevano detto che non si poteva costruire e Vesuvio sapeva di aver ottenuto ciò che suo padre e il padre di suo padre ancora prima non erano riusciti a raggiungere. Aveva creato un passaggio perché l’intera nazione di Marda potesse invadere Escalon.
La polvere ancora vorticava alla luce, le macerie ancora riempivano l’aria dove il gigante aveva creato un buco con i suoi pugni attraverso il soffitto. Mentre Vesuvio vi guardava attraverso, sapeva che quel buco là in alto rappresentava il suo destino. La sua intera nazione l’avrebbe seguito da vicino: presto tutta Escalon sarebbe stata sua. Sorrise già immaginando la violenza, la tortura e la distruzione che lo stavano aspettando. Sarebbe stato un bagno di sangue. Avrebbe creato una nazione di schiavi e lo stato di Marda sarebbe raddoppiato in misura, anche come territorio.
“NAZIONE DI MARDA, AVANTI!” gridò.
Si levò un forte grido alle sue spalle mentre centinaia di troll si riunivano nella galleria e sollevavano le alabarde lanciandosi alla carica insieme a lui. Vesuvio fece strada risalendo verso l’uscita, scivolando e incespicando nella terra e sulla roccia, avanzando verso l’apertura, verso la conquista. Con Escalon in vista si sentiva fremere per l’eccitazione mentre il terreno tremava sotto di lui. Gli scossoni erano generati anche dalle grida del gigante in alto, pure lui evidentemente