Zenith. Saccinto Saccinto

Чтение книги онлайн.

Читать онлайн книгу Zenith - Saccinto Saccinto страница 8

Zenith - Saccinto Saccinto

Скачать книгу

Verità».

      I pugni si serrarono definitivamente, Ambrose si girò verso di me, indicandoli con la punta del telefono tesa alla fine del braccio alle sue spalle.

      «Ma lo senti come parlano, lo senti cosa dicono? Sono completamente pazze. E tu credi alle loro cazzate?».

      «Io non credo a niente» mi avviai verso il buio.

      «Aspetta» la mano di Ambrose mi afferrò una spalla. Mi girai. «Dove stai andando?» chiese.

      «Non lo so».

      «Benissimo, vuol dire che verrò con te» fece per infilarsi il telefono in tasca. Come uno sciabolare di enormi lamiere, le pareti nere volteggiarono nell’aria del buio immenso davanti ai nostri occhi, al di là del prato turchese, per ricomporre il corridoio oscuro. La mano di Ambrose scivolò giù dalla mia spalla.

      «Sei sicuro?» gli chiesi. «Non direi». «Perfetto». Ripresi la via. Questa volta la prima anima se ne restò ferma ad aspettare.

* * *

      Le nuvole avevano ripreso ad ammassarsi nel cielo sopra la statale srotolata dai contorni vaghi di una città lontana come un lungo tappeto d’asfalto steso in un saliscendi infinito verso la notte. Camminavo affianco al guardrail con gli occhi puntati a terra e calciavo una pietra per farla rotolare in salita. Continuavo a strofinarmi le mani per il freddo.

      Non avevo mai avuto un'allucinazione così realistica. In realtà non avevo mai avuto alcuna allucinazione, neppure quando da piccolo lo schienale della sella della bici di un mio amico si era infilato nel manubrio della mia bici mentre impennava e tornando a terra mi aveva catapultato all'indietro facendomi svenire. Non lo so quanto ero stato vicino alla morte quella volta, ma ricordo soltanto un buio leggero e un silenzio di pace. Niente porci giganti o cose del genere. Niente colline tetre, niente anime da salvare per tornare alla vita.

      Dietro un vecchio cancello arancione, una lampadina lasciata accesa illuminava i tavoli quadrati e le panche di legno accatastati nel cortile di una balera. Tristi triangoli colorati ondeggiavano nell’aria su un filo sospeso da una parte all’altra del cortile. Il buio si insinuava nei cunicoli contorti tra gli ulivi tutto intorno. Ogni tanto qualcosa si muoveva in mezzo all'erba della campagna. Lanciavo un'occhiata di sfuggita e andavo avanti. Una civetta si alzò in volo dalla chioma di un albero vicino, le grandi ali scure si distesero contro il cielo rossastro, facendomi finire al centro della strada. Mi chiedevo che fine aveva fatto il mondo. Colleterno, Domenico, Claudio, Paolo, i miei unici amici. I miei genitori. Mi chiedevo di Lei.

      Mi chiedevo quanto fossero lontani e cosa stesse facendo ognuno di loro. Stavano dormendo di sicuro. Forse vagando attraverso i loro sogni, avrebbero potuto incrociare i miei e intravedermi, avremmo potuto incontrarci ancora. Oppure tutto iniziava davvero a finire e non avrei mai più visto nessuno di loro. Non si sopravvive a una cosa come quella che mi era capitata. Questo non era nient'altro che l'ultimo sogno di un uomo già morto, un film per un solo spettatore, un sogno vivido come un'altra forma di realtà viva dall'altra parte della notte. Mi sentivo perso in una solitudine definitiva, come quando avevo ascoltato per la prima volta quella tristissima canzone degli Smashing Pumpkins, For Martha, di un disco che Claudio aveva comprato da poco. Un incredibile senso di abbandono mi gelò per un attimo e mi fece salire le lacrime agli occhi. Ingoiai, mi strinsi a me, continuai a strisciare gli scarponi sull'asfalto.

      Raggiunsi l’unico dosso visibile nel raggio di alcuni chilometri, subito dopo una stazione di servizio, e mi voltai indietro a guardare. Non c’erano fari in avvicinamento, tutto sembrava tranquillo. Mi appoggiai al guardrail col fondo dei jeans, ci sedetti sopra, poi presi a colpirlo a ritmo con i talloni. Tirai fuori tabacco, filtri e cartine. Nella leggera foschia che iniziava a sollevarsi dal terreno, mi venne in mente una storia che Domenico ci raccontava spesso. Diceva che era accaduta veramente, ma aveva tutte le caratteristiche di una leggenda metropolitana.

      Una notte suo zio rientrava da un lungo viaggio in macchina con la famiglia. A un centinaio di chilometri da Torino trovarono un banco di nebbia fitta che li costrinse a una fila interminabile che andò avanti a passo d'uomo per più di un'ora. Lo zio guidava con la fronte attaccata al parabrezza, il volante schiacciato al petto e i tergicristalli che andavano al massimo per spingere via l'umidità che non smetteva di formarsi. I bambini erano terrorizzati, la moglie continuava a ripetergli di stare attento. La nebbia si infittiva come non avevano mai visto. Qualcuno davanti alla fila decise che non si poteva più proseguire, azionò le quattro frecce e si fermò a bordo strada. La fila si bloccò del tutto.

      Dopo molto tempo, quando la nebbia iniziò a diradarsi, le macchine ripartirono una a una. Ripartì anche lui. Si rimise con il petto sul volante, azionò la freccia per superare e si lasciò distanziare dalla macchina che lo precedeva per avere la visibilità della corsia di sorpasso. L'aria diventava sempre più tersa, i nervi dello zio iniziarono a distendersi. Ma mentre accelerava per spostarsi di corsia, il busto di una donna apparve dalla strada, si alzò a sedere dall'asfalto e finì contro il paraurti.

      Lo zio lanciò un urlo, sentì il tonfo del torace della donna che rimbalzava contro l'auto e quello della testa che si spappolava sull'asfalto. Inchiodò e scese per andare a vedere che cosa era successo, sicuro di aver avuto una specie di visione. Invece aveva visto bene. Una donna era davvero stesa lì a terra col cervello che tappezzava l'asfalto. Era una prostituta che era rimasta sul ciglio della strada per tutto il tempo in cui le auto si erano fermate per la nebbia. Aveva aspettato che ci fosse maggiore visibilità per poter passare e quando la nebbia aveva cominciato a dissolversi, si era incamminata, nello stesso momento in cui le auto erano ripartite. Le prime erano riuscite a schivarla, ma quella davanti allo zio di Domenico l'aveva investita senza ucciderla. A finirla era stato lui.

      Accesi la sigaretta. L’intermittenza di due fari in lontananza segnalò l’arrivo di un’auto che saliva e scendeva lentamente una serie di cunette che precedevano il rettilineo prima del dosso. Aumentò la velocità quando si immise sul piano regolare e si tenne sulla linea centrale della strada finché non diventò continua.

      Una seconda auto rischiarò la statale con i coni di luce dei fari che cambiavano angolazione per i continui colpi d’assestamento dati al volante dal guidatore. Percorse il tratto di cunette sobbalzando senza controllo e, in meno di niente, si mise in coda all’altra vettura. Il muso liftato di un’auto da corsa dava scatti nevrotici verso il centro strada per superare, senza riuscire a trovare lo spazio.

      Saltai giù dal guardrail e raggiunsi il centro della strada, nel punto più alto del dosso. Mentre andavo, nella nebbia che saliva, guardai giù dall'altra parte. L’asfalto scendeva inclinandosi in una curva a neanche un centinaio di metri. Una debole luce si proiettò sulle frecce bianche dei cartelli neri in sequenza. Era tardi, ormai, per dare retta al dubbio che avessi scelto il posto peggiore per evitare l’impatto. L’auto di Ambrose si ricavò lo spazio a colpi di gas, l’altra si fece da parte. Dietro di me, il riflesso dei fari si intensificava sulla superficie bianca e nera dei cartelli. Il rumore che vibrava sul guardrail non era quello di un’auto.

      Restai immobile a tirare dalla sigaretta e spingere fuori il fumo che si arrotolava nell’aria densa. La Porsche andava troppo forte. Avrei fatto la fine della prostituta del racconto di Domenico. Quando il paraurti di un enorme autotreno emerse dalla curva oltre il dosso, raggiunsi il bordo della strada più vicino, scavalcai il guardrail e mi allontanai di qualche metro. Poi mi girai.

      Uno stridere di gomme squarciò l’aria, sormontato dalle urla dei clacson delle due auto e dal frastuono di quello dell’autotreno che sbandò in modo spaventoso per deviare. La cabina oscillò in cima alla salita, fuori dalla carreggiata, poi verso la strada, il rimorchio si sbilanciò in contrasto alla sterzata. Sembrava una bestia di dimensioni mastodontiche che inciampa e vacilla prima di crollare abbattuta.

      La Porsche finì dritta contro l’angolo anteriore sinistro del muso dell’autotreno. L’onda d’urto

Скачать книгу