Zenith. Saccinto Saccinto
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Читать онлайн книгу Zenith - Saccinto Saccinto страница 9
Aspettai che tutto si fermasse prima di attraversare la nube di terra sospesa nella foschia e innalzata dal telone del rimorchio. Mi misi sulla strada, cercai l’auto di Ambrose. La gente era venuta fuori dalla stazione di servizio, a piedi, si era fermata a vedere. Alcuni si passavano le mani sulla testa, altri cercavano di spiegare a quelli che avevano accanto, qualcuno correva avanti e indietro per capire cosa fare. Vedevo le loro ombre muoversi attraverso il filtro bianco della nebbia. Dall’altra parte, nell’auto in discesa illuminata a intermittenza dalle quattro frecce, una figura se ne stava seduta con il volto nelle mani, mentre qualcuno veniva fuori, guardava la strada e attraversava di corsa. La sua voce mi raggiunse prima di lui.
«Mi ha superato sul dosso. Ho detto “Questo è pazzo!”, non credevo che…» il ragazzo si schiantò i pugni sulle cosce «Avrei dovuto rallentare, avrei dovuto lasciarlo passare» iniziò a disperarsi piegandosi in due con una mano sugli occhi.
Andai a prenderlo per un braccio, lo trascinai verso la cabina dell’autotreno. Ci affacciammo a guardare. L’uomo al suo interno se ne stava col tronco tenuto al sedile dalla cintura di sicurezza, la testa riversa da un lato e un rivolo di sangue che si allungava dalla stempiatura tra i capelli verso il basso.
L’hai fatto secco, bella prova.
Dopo qualche secondo iniziò a muoversi e si liberò dalla cintura. Si toccò la ferita e cercò di capire cosa fosse successo, mettendosi in piedi oltre il parabrezza come dietro una teca di vetro attraversata dalle crepe che si diramavano.
«Tiriamolo fuori» dissi.
Feci cenno all’uomo di allontanarsi, mi ficcai la sigaretta tra i denti, piantai la suola della scarpa su una crepa e la mossi piano avanti e indietro, allontanando subito la gamba. Il vetro venne giù un pezzo alla volta. Il ragazzo accanto a me allungò una mano. L’uomo la prese, scavalcò quel che restava del parabrezza ed ebbe un mancamento. Lo trasportammo vicino all’auto del ragazzo, stendendolo oltre il ciglio della strada, al riparo, sotto il guardrail. La ragazza che se n’era stata per tutto il tempo all’interno della macchina scese velocemente.
«È vivo?» chiese.
«È vivo, sì, è vivo» rispose il ragazzo. La strinse e le baciò una guancia quando lei iniziò a piangere.
«Dobbiamo estrarre l’altro uomo» si rivolse poi a me.
La ragazza si chinò sul corpo del ferito. Il suo modo di osservarlo, mentre ravviava i capelli dietro il piccolo orecchio, la delicatezza e la spontaneità con cui la sua mano scivolava tra le mani dell’uomo, stringendone una, mi fece provare qualcosa di strano. Nonostante fossero due sconosciuti, per lei adesso quell'uomo era la cosa più importante al mondo. Avrei voluto sentirmi così anch’io, una sola volta, per qualcuno. Avrei voluto essere l’uomo ferito sul ciglio della strada e che Lei fosse la ragazza piegata su di me. Indietreggiai di qualche passo, poi mi voltai risalendo verso il dosso e mi incamminai in discesa. Lanciai via la sigaretta.
Mi fermai davanti a quella che fino a poco prima era stata una Porsche Boxster grigio metallizzato. Gli uomini della stazione di servizio venivano in fretta verso di noi, ma si fermarono di colpo quando il fuoco divampò intorno alla carrozzeria. Per quello che era stata pagata.
«Gli estintori» urlò qualcuno e corsero tutti indietro.
Cercai il corpo con lo sguardo, sembrava che fosse stato inghiottito dal mostro di lamiere. Poi vidi qualcosa. Un occhio, disumanamente spalancato, rivolto nella mia direzione. Intorno a quell’occhio ricostruii i contorni del viso deformato con le labbra aperte all’inverosimile. L’altra metà del volto era completamente schiacciata sul cruscotto spinto contro i sedili anteriori in pelle rossa. Aggrottai le sopracciglia e tesi un orecchio. Il sottofondo irreale di I wanna be adored, una vecchia canzone degli Stone Roses, veniva fuori dallo stereo che funzionava ancora.
Una pozza di sangue si ampliava a pochi centimetri dalle mie scarpe, come se stesse cercando di raggiungermi. Le gocce, lunghe e fluide, fuoriuscivano dalla base dello sportello chiuso. Immersi un piede nel sangue, camminai nel cono visivo di quell’unico occhio. Mi chiesi se quella che osservavo, al di là del terrore che mostrava, fosse o meno un’espressione interrogativa nel crepitio della plastica che bolliva.
Il riflesso sulla punta piatta del naso di Ambrose si allargò, il bagliore aumentò in un attimo. Scoppiai a ridere senza riuscire a trattenermi. Poi alzai le braccia per coprirmi il volto. Se l’occhio di Ambrose aveva ancora la capacità di vedere, la mia immagine che rideva fu l’ultima cosa che restò impressa nella sua retina. Nell’arco di un solo secondo, una nuova vampata devastò la notte, mischiando sangue, abiti e lamiere, fumo e vite spezzate e avvolgendomi in un vortice di dolore abbagliante che rase al suolo tutto quello che c’era intorno. Mi contorsi per un tempo infinito in quel dolore indescrivibile.
Capitolo 4
Alzai la testa verso il volto della ragazza vestita di bianco. Sembrava serio e preoccupato. Vecchio. Il suo seno si era nuovamente riempito, il suo corpo aveva ripreso le forme morbide che aveva prima dell’arrivo di Ambrose. Infilai il mento nel collo della felpa, con le mani nelle tasche senza neppure ascoltare quello che stava dicendo. Non mi ero mai sentito così perso dentro me stesso come quando avevo attraversato il buio ricolmo di semisfere sospese e il corridoio oscuro per tornare alla collina. La mia essenza altalenava tra esaltazione e frustrazione in un continuo trasfigurare senza forma. Vedevo pezzi di verità e non una verità completa, mi sembrava di arrivare a una meta, poi venivo risucchiato via, tornando al punto di partenza, senza riuscire a tenere il controllo di quella che era per davvero la mia volontà. Non avevo una volontà.
Scossi la testa in risposta alla domanda che indirettamente mi ponevano gli sguardi delle tre figure. Chiusi gli occhi, senza dire una parola. Cercavo di accantonare il ricordo di ciò che era accaduto. Proteggevo la mia scelta con il silenzio o qualcosa del genere. Salvare qualcuno non aveva senso. Non sarebbe cambiato nulla, si sarebbe solo protratto un altro egoismo personale. Il mondo non avrebbe sentito la mancanza di Ambrose e al mondo non eravamo utili né io, né tutti quelli che sarebbero arrivati quella notte. Rappresentavamo la stupidità della vita, una speranza che, come tutte le inutili speranze, non sarebbe mai arrivata a niente di concreto. Eravamo evanescenti. Il ruolo che ci spettava era quello di spettri che non appartenevano più al mondo. Che, forse, non gli erano mai appartenuti.
Vidi il grande braccio piegarsi lentamente, fino a portare la piattaforma dall’aspetto di una mano al terreno. La ragazza vestita di nero, la Pura Verità, scese, raggiunse il ragazzo, gli mise una mano sulla spalla mentre lui immergeva con apparente disperazione la faccia tra le mani. Improvvisamente mi sembrò di sentire freddo.
Ambrose fu accompagnato in una lenta passeggiata verso la torre. Si voltò per un’ultima volta a guardarmi, a guardare il buio che era stato la sua vita. Forse rimpianse qualcosa, forse la morte gli era servita di più che l’esistenza stessa. Poi la ragazza lo spinse dentro, con tatto, quasi con compassione.
Dopo un lungo tempo inciso dalle crepe di un silenzio funebre, scese lei sola dalla torre marcescente. Le lunghe gambe sfilarono in un’andatura veloce, illuminata dal chiaro della pelle liscia e tesa sulle curve di donna. Mi voltai. Mi allontanai dalle due mani di rampicanti mentre la ragazza riprendeva la sua posizione e il braccio si rialzava poco per volta da terra.
Trascinai i piedi verso