Le Mura Di Tarnek. Goran Segedinac
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Читать онлайн книгу Le Mura Di Tarnek - Goran Segedinac страница 6
Sarto dei sogni, accorcia la pena della tua serva fedele e guidala verso il riposo eterno.
I due malati successivi non erano messi tanto meglio, e Sarius prese la difficile decisione di non ungerli col balsamo. La misericordia era una cosa, ma un inutile spreco di quel prezioso unguento su corpi immobili in cui si stava irrimediabilmente spegnendo la vita era tutt’altra cosa. Sperava che anche la loro coscienza fosse ormai andata, che gli infelici non fossero coscienti di cosa li aveva colpiti. Il corpo era la cosa più sacra per ogni kas, e la sua conservazione il primo dei propri doveri. Essere negligente nei confronti del proprio corpo o annientare quelli altrui erano peccati al di sopra di ogni peccato. Qualcosa per cui non vi era perdono.
Solo che loro non sono responsabili della propria rovina.
La morte cancrenosa, un’epidemia che devastava i tessuti, era diventata realtà. Il balsamo, un bene dato per scontato di cui la Gilda riforniva la città, e la ghiera che teneva insieme la società, era diventato un lusso. La sua scomparsa definitiva era ancora ben lontana, ma persino quei fortunati che continuavano a ricevere la razione regolare erano preoccupati per la sua efficacia. Le conseguenze di tale situazione giacevano di fronte a Sarius. L’unico kas ancora capace di muoversi, accanto a cui si era accovacciato, alzò con gran pena la testa e si appoggiò al muro.
“Come stai oggi, Kalon?”, domandò Sarius con dolcezza.
“Meglio, predicatore. Ero convinto di poter fare una bella corsetta, ma le gambe mi hanno stranamente tradito”. La gola di Kalon emise un suono stridente, un misero tentativo di risata. Sarius era stupito dalla combattività del suo spirito.
“Fammi vedere”. Sollevò la coperta sporca temendo ciò che avrebbe trovato. La situazione era tutt’altro che buona. La gamba destra sembrava quasi non appartenergli più, giusto un paio di strisce di pelle secca la teneva attaccata al resto del corpo. Delle bolle di un azzurro sbiadito non lasciavano spazio alla speranza che l’altra potesse sfuggire al destino della sua vicina.
“Sembra un po’ meglio”, mentì senza pensarci troppo su.
“Sembra, niente più”, rispose il malato. “Se si potesse ancora curare la cancrena, le probabilità di guarigione sarebbero ben più alte”.
Sarius avvampò per la vergogna. “Volevo dire che l’abbiamo un po’ rallentata”.
“Lo so, predicatore. Voi siete un buon kas, le vostre intenzioni sono pure. Una rarità, al giorno d’oggi”.
“Sono solo un servitore dell’Eternorisorto, il merito è suo”, rispose, slacciando il telo cerato che copriva l’involto. L’unguento diluito iniziò a gocciolare, e lui lo carpì velocemente con le dita e iniziò a sfregarlo sul punto dolente.
“L’Eternorisorto… avete ancora le forze per credere in lui?”.
Stupito dalla domanda, Sarius lo fissò. Prima che riuscisse a formulare una risposta, Kalon continuò.
“Stanotte ho pensato di strisciare fino a quei poveretti e di porre fine alle loro sofferenze. Sarebbe bastato tuffare le mani nella carne incancrenita e li avrei fatti a pezzi”.
“Perché dovresti voler fare una cosa del genere? Non ti hanno fatto nulla di male”, ribatté Sarius.
“Farmi del male?”, sorrise Kalon. “Oh, non mi hanno fatto nulla. Né a me, né a Dio. Eppure, lui li ha premiati con una morte lenta. Penso che avrebbero di gran lunga preferito il mio dono”.
“Uccidere un corpo è il più grave dei delitti”.
“Ma lui li uccide comunque. Perché?”.
“Abbiamo tutti un destino, ci svegliamo con esso, lo viviamo e alla fine ci avviamo verso il riposo. Al di là del destino, però, esistono circostanze che in esso si possono manifestare in modo diverso. La morte cancrenosa è solo una di esse. Quando ci sono favorevoli, le chiamiamo fortune. Quando non lo sono, ci arrabbiamo con Dio e diciamo che è ingiusto”.
“Le circostanze giustificano le mie intenzioni. Non sarebbe forse sensato abbreviare la loro sofferenza? I corpi non sentiranno l’invito nella Torre di Cristallo”. Kalon non si arrendeva.
Anche se era perfettamente consapevole di parlare con un morente, Sarius decise di essere sincero.
“Forse sembra sensato a te e a quelli che ti somigliano”, iniziò. “Al momento, non per tua colpa, la portata di ciò che ti turba si trova tra le mura questa stanza. Non è neanche più una malattia, perché è diventata parte di voi. Questa è la morte, Kalon, e tu per questo pensi che il culto del corpo non abbia senso. Quel che mi preoccupa, al di là dello spazio che al momento condividiamo, è quanto succede agli altri kasi che si trovano nella mia circoscrizione, e al di fuori di essa. Sono queste le mie mura. Tra di esse risiedono le mie speranze per un domani migliore, e per questo m’importano. Ora immagina una coscienza i cui confini non esistono, una cui singola scelta sbagliata possa sconvolgere l’ordine perfetto in cui anche noi siamo stati creati, immagina le sue mura e le sue speranze, poi dimmi – abbiamo il diritto di innalzarci al suo stesso livello?”.
Kalon taceva. L’ho offeso, pensò Sarius, ma proprio allora arrivò la risposta.
“Parli con saggezza per essere un predicatore. Posso parlare apertamente?”.
“Certo”.
“Puoi immaginare perché non ho portato le mie intenzioni fino alla fine?”.
“Hai onorato la regola? Alla fine hai riconosciuto di peccare?”.
“No, idiota! Temevo che mi si staccasse la gamba!”. Kalon scoppiò in un altro impeto di riso spezzato, e questa volta anche Sarius si unì a lui. Qualcosa in quel kas era degno di ammirazione.
Un colpo deciso alla porta raggelò il riso sulle loro bocche. Un’onda di luce abbagliante lo colpì negli occhi e Sarius scorse il contorno di un kas imponente. La sagoma fece qualche passo in avanti. Era straordinariamente corpulento e indossava la scadente imitazione di un’uniforme, rattoppata usando pezzi di diverse divise. I pantaloni sembravano fatti con la fodera delle uniformi dell’Ordine, sbiadite e probabilmente raccolte dalla spazzatura. I lunghi capelli neri erano raccolti in un codino unto che pendeva moscio sul petto. Aveva un’aria tanto sgraziata nella sua altezza che pareva si tenesse in equilibro bilanciandosi mentre teneva con entrambe le mani un bastone a due bracci con delle lame al posto delle estremità. Sarius non aveva il minimo dubbio sulla sua professione ancora prima che iniziasse a parlare.
“Mi scuso con vostra santità per aver interrotto così la festa!”. La risata di Kalon era musica in confronto al rumore che veniva dalla sua gola. “Vi prego di benedirmi, io sono Herek!”, fece una brutta imitazione di un inchino e senza attendere risposta strappò via il mucchio di stracci sotto a cui giaceva il malato.
Sarius si alzò, conscio che il balsamo vitale che era rimasto sul pavimento avrebbe presto iniziato a riversarsi al di là dell’orlo dell’involto che avrebbe dovuto contenerlo.
“Vattene di qui. Non abbiamo niente per te, qui ci sono solo malati”.
Il bruto si accigliò, poi fece qualche passo avanti.
“Ti sbagli, santità. Qui non c’è più