Il Testimone Silenzioso. Блейк Пирс

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Il Testimone Silenzioso - Блейк Пирс

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SETTE

       CAPITOLO OTTO

       CAPITOLO NOVE

       CAPITOLO DIECI

       CAPITOLO UNDICI

       CAPITOLO DODICI

       CAPITOLO TREDICI

       CAPITOLO QUATTORDICI

       CAPITOLO QUINDICI

       CAPITOLO SEDICI

       CAPITOLO DICIASSETTE

       CAPITOLO DICIOTTO

       CAPITOLO DICIANNOVE

       CAPITOLO VENTI

       CAPITOLO VENTUNO

       CAPITOLO VENTIDUE

       CAPITOLO VENTITRÉ

       CAPITOLO VENTIQUATTRO

       CAPITOLO VENTICINQUE

       CAPITOLO VENTISEI

       CAPITOLO VENTISETTE

       CAPITOLO VENTOTTO

       CAPITOLO VENTINOVE

       CAPITOLO TRENTA

       CAPITOLO TRENTUNO

       CAPITOLO TRENTADUE

       CAPITOLO TRENTATRÉ

       CAPITOLO TRENTAQUATTRO

      PROLOGO

      Robin aprì gli occhi.

      Giaceva, ormai completamente sveglia, nel proprio letto. Inizialmente, pensò che un rumore, proveniente da qualche parte nella sua piccola casa, l’avesse destata.

      Vetri infranti?

      Rimase sdraiata ad ascoltare per un istante ma non sentì altro che il confortante brontolio della caldaia nel seminterrato.

      Rassicurata, pensò di aver solo immaginato il suono.

      Nulla di cui preoccuparsi.

      Ma, appena si girò sul fianco per provare a riaddormentarsi, avvertì un improvviso dolore acuto alla gamba sinistra.

      Ci risiamo, Robin pensò con un sospiro.

      Accese la lampada sul suo comodino e si tolse le coperte di dosso.

      Non si sorprese, constatando che le mancava la gamba sinistra: si era ormai abituata da molti mesi a quella vista. Le era stata amputata al di sopra del ginocchio, dopo che le ossa erano state ridotte in poltiglia in un terribile incidente d’auto, di cui era stata vittima l’anno prima.

      Ma il dolore era piuttosto reale: le sembrava che la gamba pulsasse e avvertiva spasmi, bruciori.

      Si mise in posizione eretta nel letto, e stette a guardare il moncone sotto la camicia da notte. Aveva patito il dolore dell’arto fantasma, in questo modo, sin dall’amputazione, soprattutto di notte, quando provava a dormire.

      Guardò l’orologio sul comodino e vide che erano le quattro del mattino. Sospirò scoraggiata. Spesso veniva svegliata dal dolore a quell’ora, o anche prima, e sapeva che non sarebbe riuscita a riaddormentarsi, con quella sensazione che la tormentava.

      Considerò di prendere la scatola di specchi sotto il letto, uno strumento terapeutico che spesso l’aiutava ad affrontare episodi come questo. Consisteva nel posizionare il moncone su di una scatola di forma prismatica, composta da uno specchio su un lato, così che la gamba restante proiettasse un riflesso. La scatola di specchi creava l’illusione che lei avesse ancora entrambe le gambe. Era una tecnica bizzarra ma efficace, per far diminuire o persino eliminare il dolore fantasma.

      Avrebbe osservato il riflesso e, nel frattempo, manipolato la sua gamba superstite, tendendo e ritraendo i muscoli dei piedi, dita e polpacci; in questo modo induceva il cervello a credere che fosse ancora dotata di entrambi gli arti inferiori. Immaginando di controllare la gamba mancante, spesso riusciva a superare il dolore ed i crampi che provava in quel punto.

      Ma non sempre funzionava. Richiedeva un livello di concentrazione meditativa, che non riusciva sempre ad ottenere. E sapeva, per esperienza, di avere poche chance di successo, dopo un risveglio alle prime ore del mattino.

      Sarà meglio che mi alzi e mi metta a lavorare un po’, pensò.

      Considerò brevemente di indossare la protesi che teneva accanto al letto. Avrebbe dovuto avvolgere il moncone in una fodera in tessuto sintetico, sistemare un paio di calze sulla fodera, per compensare il restringimento del moncone, poi stringere la protesi a dovere, appoggiando tutto il suo peso sopra, finché non fosse andato tutto a posto.

      Non le sembrava che ne valesse la pena al momento, specialmente se avesse avuto fortuna, e il dolore fosse scemato da solo, così da poter tornare a letto e provare a dormire ancora un po’.

      Perciò, indossò una vestaglia, raggiunse le stampelle, infilò i polsi nelle grucce e si aggrappò alle impugnature, poi zoppicò fuori dalla camera da letto e raggiunse la cucina.

      Una pila di documenti l’attendeva lì sul tavolo dal rivestimento in formica.

      Si era portata a casa un’enorme quantità di poesie e racconti brevi da leggere, consegne per Sea Surge, la rivista letteraria per cui lavorava come vice caporedattrice. Aveva letto più della metà degli

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