Scala E Cristallo. Alessandra Grosso
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abissi.
La chiave girò, ma nel mentre sentii che il mostro si
stava riprendendo e si stava avvicinando: voleva ripercorrere
la scala.
Noi volevamo uscire di lì e scappare verso la luce… luce
che cercavo da sempre, ma intanto avevo sempre davanti le
intricate sbarre del cancello dipinte di bianco che mi
ricordavano la purezza e ancora una volta la luce.
Le sbarre erano robuste e fitte e il mostro sarebbe
rimasto lontano da loro perché la luce mi proteggeva… ma che
cosa poteva mai essere questo elemento protettivo?
La luce? Cos’è mai la luce? Dio? Luce come Lucifero? Eh,
sono domande, sono domande… ma la risposta?
Continuavo a cercarla, e dopo essere scappata dal mostro
della cantina mi avventurai in una chiesa oscura.
Il mostro aveva bestemmiato, infuriato, con la sua voce
gutturale e spaventosa; aveva imprecato, ma le sbarre erano
state chiuse, tutti erano scappati e la chiave era ora
disponibile per chi volesse morire o andare a ucciderlo
definitivamente. Io più di così non potevo fare.
Non capivo cosa ci fosse di strano nella vecchia chiesa
oscura, ma improvvisamente mi trovai da sola e al buio, in
quella chiesa polverosa e coi muri scalcinati e scarni.
Mi avventurai lungo la cella che credo fosse la navata di
destra e vidi uno strano inginocchiatoio con una statua.
Strana statua, pensai. Cosa avrà mai…
Era piena di sangue.
Un brivido e poi una voce.
«NON esiste una sola Morte!».
La morte sarà veramente la fine di tutto o andremo nel
passato? O nel futuro? O svaniremo lentamente in una nuvola di
fumo? Un passato vicino o lontano o una dimensione parallela?
Mi chiedevo ciò mentre mi ritrovavo fuori dalla chiesa
misteriosa a vagare in mezzo alle felci. Felci giganti,
maestose, dalle foglie lucide che avevano odore di selvaggio e
mi ricordavano la mia infanzia vicino al lago nella vecchia
casa di campagna. Quella casa di campagna era vicina, ma io
ero curiosa e volevo oltrepassare la distesa di felci, in un
atteggiamento di ricerca e perlustrazione tipico della prima
pubertà. La mia giovinezza mi diceva infatti “esplora”, la mia
saggezza “pensa”, il mio cuore “prova”. Andavo avanti seguendo
la mia natura avventurosa… e anche in quel momento lo stavo
facendo, come tipico del mio carattere.
Scovai una scena del passato, una lotta feroce tra
tirannosauri, e scappai. Prima della fuga, posso testimoniare
di aver visto i denti aguzzi dei due animali e il loro
atteggiamento che da sfida si trasformava in attacco vero e
proprio. Con i loro corpi mastodontici e muscolosi si
scontravano, distruggendo tutto ciò che travolgevano. Avevano
abbattuto alberi e distrutto le mie amate felci, in una lotta
tipica del periodo riproduttivo.
Correndo, caddi su delle pietre che ruzzolavano le une
sulle altre. Il rumore attirò i sensibilissimi bestioni, che
si voltarono e iniziarono la caccia.
Sentivano ogni odore e percepivano la paura, come molte
fiere selvagge.
Scappai disperata, il respiro che si faceva pesante. La
milza pungeva, affaticata, ma non potevo permettermi di
fermarmi: doveva esserci una via di uscita. E alcune volte
essa è più spaventosa delle cose da cui stiamo scappando. La
via di uscita era un oscuro vicolo che si prolungava in un
cunicolo crepato e buio inserito in una cavità.
Dovevo affrontare la claustrofobia.
Con un ultimo colpo di reni mi ci infilai. Fuori, le
gigantesche belve ruggivano livide di rabbia, poiché non
vedevano più la loro preda.
Strisciai per un sacco di tempo, l’aria stantia,
puzzolente e odiosa da respirare. Temevo ragni e topi… avevo
sempre odiato i ragni e i topi. Specialmente questi ultimi mi
terrorizzavano: da piccola ero andata nel pollaio e avevo
visto un enorme topo intento a rubare le uova a una gallina.
Ma ero piccola, ora invece ero una donna ed era tempo di
lottare per la vita.
Lottare per sopravvivere o scappare se l’avversario era
più grosso: questo era il meccanismo alla base della
sopravvivenza umana. Lo era sempre stato, e io continuavo a
usarlo, per me stessa, per la sopravvivenza della specie
umana, per l’umanità