Scala E Cristallo. Alessandra Grosso

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Scala E Cristallo - Alessandra Grosso

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non era stata così al centro dei miei pensieri.

      Prima di tutte queste avventure ero stata una nerd; un tipo

      difficile, chiuso, sempre vestita di nero e parecchio

      depressa, con addirittura pensieri suicidi. Tuttavia ora era

      tempo di lottare e uscire dal tunnel.

      Strisciavo, mi graffiavo e cercavo di andare avanti.

      Quando sgusciai fuori era notte, una notte terrificante

      quasi senza luna, con un cielo nero e a tratti reso incombente

      e aggressivo dalle nuvole. Le nuvole avevano la forza di un

      ghepardo per le tinte che si avventuravano sui muscoli

      dell’animale con inquietanti sfumature rosse.

      E vidi tutto. Vidi un tirannosauro che vagava davanti a

      me, mentre lo osservavo nascosta in quella sorta di balcone

      naturale.

      Scesi da lì solo durante il giorno e mi sentii più forte,

      pronta a vedere altri mostri e a perlustrare per capire la

      vera natura delle cose: la mente era aperta a ogni

      eventualità, a vedere altre strane creature e a captare altri

      strani sogni.

      I sogni erano stati tutto per me, lo sfogo di tutti i miei

      desideri; erano la percezione delle cose addirittura prima che

      accadessero, la percezione del no alla mia richiesta di aiuto

      verso un amico amato che non mi aveva capito come essere

      umano.

      Avevo sognato questa negazione di aiuto, ma con la mia

      natura testarda e coraggiosa ero andata contro quello che

      avevo percepito, e avevo continuato. Avevo sbattuto la porta

      perché non avevo ascoltato la mia naturale e sensibile voce

      interiore. L’avvertivo fin dalla tenera infanzia, ma ne avevo

      preso coscienza da poco, solo da adesso che scappavo dai

      mostri o li combattevo.

      Presi a camminare per una valle che si inerpicava, foglie

      di quercia rossa ovunque. Era autunno, le foglie si staccavano

      dagli alberi, profumo di pioggia appena caduta, di muschio

      selvaggio.

      Vicino a me un ambiente ovattato, dove finalmente potevo

      accendere un fuoco per riscaldarmi. Fortunatamente nella sacca

      avevo ancora la mia riserva di carne essiccata; preparai il

      fuoco e mi misi comodamente a campeggiare. Poi mi coricai a

      pesare la notte.

      La notte fu lunga e sognai di viaggiare per i mari su

      goffi battelli.

      Al risveglio, la brina e poi gocce di rugiada. Doveva

      essere metà settembre e le foglie avevano creato uno strato di

      diversi centimetri dove i miei stivali sprofondavano.

      Erano stivali femminili, comodi, e avevano l’eleganza dei

      vecchi stivali da cowboy. Il loro pensiero attenuava le

      riflessioni sulla solitudine, la puntura fredda e profonda

      della nostalgia e i pensieri intimi e tristi. Era proprio

      questa intimità che sentivo nel profondo di quella strana

      foresta di quercia rossa, dove le foglie cadevano ed erano

      rosso sangue.

      Tuttavia mi sentivo seguita, spiata.

      Questa sensazione di essere spiata, la percezione che

      qualcosa di oscuro si stesse accalcando e stesse progettando

      alle mie spalle, l’avevo avuta anni dopo l’adolescenza, quando

      qualcuno mi aveva nascosto strani messaggi nella posta,

      messaggi che sembravano di amore, ma non erano chiari e per

      questo ancora più inquietanti.

      Nonostante quegli oscuri presagi, avanzavo nella boscaglia

      e spesso mi voltavo per controllare perché non mi sentivo

      serena; percepivo la nebbiolina, la rugiada e non capivo cosa

      fosse.

      Poi, d’improvviso, l’incertezza e il timore si

      materializzarono e fu paura vera, terrore come quello che solo

      i bambini possono percepire.

      Mi sentii piccola e corsi via da quell’uomo con gli

      stivali neri che mi inseguiva, chiedendomi come un pazzo:

      «Perché?».

      Ma come, “perché”?

      Perché invece sei tu a farmi questa domanda? mi dissi.

      Mentre correvo per non cedere al panico, pensavo a come

      organizzarmi per sopravvivere: era l’istinto di sopravvivenza,

      era una sorta di freddezza naturale e orgoglio.

      Poteva uccidermi ma non sarebbe mai entrato nella mia

      testa.

      La mia testa si concentrava mentre il mio corpo scappava.

      Correvo sulle radici sperando che il feroce uomo che mi

      inseguiva cadesse. Non lo guardavo mai negli occhi, quegli

      occhi che ti controllavano di soppiatto, occhi da coccodrillo

      che puntano la preda da sotto il pelo dell’acqua.

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