La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli

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La Corona Bronzea - Stefano Vignaroli

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dei libri, se uno le sa interpretare. Lasciati guidare da un archeologo, e non te ne pentirai!»

      Convinta che Andrea sapesse molte più cose di quelle che nel giro di alcuni mesi le aveva rivelato, corse in bagno, diede una botta di fon ai capelli per finirli di asciugare, si truccò, si infilò una maglietta e un paio di jeans e si ripresentò in cucina pronta per uscire. Sentì l’occhiata compiaciuta di Andrea su di lei, rendendosi conto che, non essendosi affatto preoccupata di indossare un reggiseno, la forma dei suoi capezzoli era distintamente stampata sulla t-shirt. Ma chi se ne importava. Se anche Andrea fosse stato geloso delle sue grazie, meglio così: uomo geloso, uomo innamorato!

      Mentre risalivano, mano nella mano, le scalette di Costa Baldassini, godendo dell’aria ancor fresca delle prime ore del mattino, Lucia lasciava che le pietre delle antiche costruzioni le sussurrassero storie vecchie di secoli, rimuginando nella sua testa quanto aveva letto la sera precedente.

       MISERIA

      

      

       Le scorrerie degli eserciti invasori non erano terminate e, tra il 1520 e il 1521 sostarono dalle nostre parti gli uomini di Giovanni De’ Medici prima e quelli di Leone X poi. Erano, questi ultimi, Svizzeri assoldati dal Papa, e che si erano trattenuti per ventisei giorni, recando danni infiniti alla città e al contado.

       Oltre ai danni e alle angherie, la peste era tornata come un incubo a terrorizzare la popolazione. In un Consiglio generale del 6 dicembre 1522, trattandosi di provvedere sopra un minacciato passaggio di 2.500 spagnoli militanti al

       soldo del Papa, si deliberò di fare il possibile per allontanarli, anche con qualche dono, e se volessero venire ad ogni modo, di riceverli fuori della città, essendo risaputo che essi portavano con loro il contagio. Tutta l’Italia, del resto, in quegli anni era ridotta nelle più misere condizioni. Alle rovine e carneficine causate dalle battaglie e dalle scorrerie degli eserciti stranieri, si aggiungevano le alluvioni e la peste, che continuava ovunque a fare le sue vittime. Nonostante l’opera preventiva dei cittadini, il terribile morbo, secondo alcuni, in particolare secondo lo storico Antonio Gianandrea, sarebbe giunto a Jesi per via d’Ancona, in certe balle di corde. Dicesi anche che detta peste venne per giusto giudizio di Dio, perché l’anno avanti alcuni giovani, trovando un corpo morto di un forestiero in casa Caldora, tutto intero, per gioco, lo portarono nei giorni di Carnevale in maschera per la città e, non essendo stati di ciò puniti, ma piuttosto da tutto il popolo aiutati, in sogno apparve loro l’immagine di un uomo nero che li avvertiva che poco appresso sarebbero morti di peste. Sta di fatto che la peste gettò la popolazione nella miseria più nera.

       Già l’anno prima una moltitudine di locuste avevano quasi mangiato tutte le biade, apportando una grandissima fame e tante altre miserie, che fu opinione universale che, se il Magistrato non avesse aiutato molti col denaro pubblico e ordinato che si premiassero quelli che ammazzavano una certa quantità di locuste, l’anno seguente una buona parte della cittadinanza sarebbe morta di fame. Fu tale la miseria che i più poveri, non avendo di che sfamarsi, erano costretti a cibarsi di erbe, come le bestie, e di qualche quantità di semola.

      Intanto i due giovani, quasi col fiatone, erano giunti in cima alla salita, avevano percorso un breve tratto di Via Roccabella ed erano sbucati in Piazza Colocci, illuminata dal sole di una splendida giornata di luglio, fermandosi ad ammirare la facciata del Palazzo del Governo, dai più conosciuto come Palazzo della Signoria.

      «Non capisco perché si insista a chiamarlo Palazzo della Signoria, quando a Jesi una vera e propria Signoria non è mai esistita», esordì Lucia rivolta al suo erudito compagno, sperando nel suo solito competente intervento.

      «E in effetti Jesi era una Repubblica, come vediamo riportato in diverse scritte sulle icone delle pareti di questo palazzo. Una repubblica comunque assoggettata al più alto potere papale, che estendeva fin qui le sue ali protettive: “Res Publica Aesina, Libertas ecclesiastica - Alexander VI pontifex maximus”. Questo per ricordare a tutti che lo stesso Papa Alessandro VI, nell’anno 1500, inaugurò e benedì questo palazzo, opera dell’architetto Francesco di Giorgio Martini, concedendo alla città di Jesi di continuare a essere una repubblica indipendente e di continuare a poter fregiare il simbolo della città, il leone rampante, con la corona regale, purché fosse comunque ossequiosa del potere della Chiesa, e nel contempo accettasse l’importante presenza di un legato pontificio.»

      «Interessante. Quindi è evidente che il nome Palazzo della Signoria sia legato all’architetto che lo ha realizzato, e che è tra coloro che progettarono il Palazzo Vecchio a Firenze.» In quel momento Lucia posò lo sguardo sull’icona in marmo, raffigurante in rilievo il leone rampante, sovrastato da una posticcia corona di bronzo. Sotto l’icona, una scritta in un latino poco comprensibile. «Sembra che quella corona, al di sopra del leone, c’entri ben poco con il resto dell’opera. Perché lo scultore che ha realizzato l’opera non ha scolpito anche la corona sopra la testa del leone? E questa iscrizione? Un latino molto approssimativo, direi. Neanche le date sono scritte in maniera corretta!»

      MCCCCLXXXXVIII

      AESIS REX DEDIT FED IMP

      CORONAVIT RES P. ALEX

      VI PONT INSTAURAVIT

      «Certo», replicò Andrea. «È un latino piuttosto “maccheronico”, ma che vogliamo farci, qui siamo tra la fine del 1.400 e l’inizio del 1.500. Forse la grammatica latina era caduta nel dimenticatoio. Ma il senso della frase è che nel 1498, con la benedizione di Papa Alessandro VI - Rodrigo Borgia - nella facciata del Palazzo della Signoria di Jesi al leone rampante fu aggiunta la corona, in onore dei natali dati dalla città all'Imperatore Federico II. Ma se sollevi lo sguardo vedi anche che il Papa fece aggiungere un’altra icona, quella raffigurante le chiavi incrociate, simbolo del vaticano, e la frase “LIBERTAS ECCLESIASTICA – MCCCCC”, per rafforzare il concetto di cui parlavamo poc’anzi.»

      «Cercando di tradurla alla lettera, il senso della frase mi sembra un po’ diverso», proseguì Lucia. «Prendendo il leone come soggetto sottinteso della frase, si potrebbe tradurre: Re Esio lo diede, Federico imperatore lo coronò, a simbolo della “Res publica”, Alessandro VI Pontefice lo instaurò. Ossia, Re Esio, il mitico fondatore della città di Jesi, indicò il leone come simbolo della stessa; in seguito, l’Imperatore Federico II, che ebbe i natali qui a Jesi, lo fece incoronare proclamando la città “regia”, ossia fedele all’Impero; infine Papa Alessandro VI fece installare il simbolo sulla facciata del palazzo, a suggellare il fatto che Jesi rimaneva comunque una repubblica indipendente, sia pur soggetta all’autorità ecclesiastica.»

      Dubbioso, Andrea rimase qualche istante in silenzio, poi riprese, non senza una punta di scetticismo.

      «Dovrei consultare alcuni testi per risponderti in maniera adeguata. In ogni caso, su un fatto hai di certo ragione: la corona in bronzo è stata aggiunta in maniera posticcia in un tempo posteriore all’esecuzione della scultura vera e propria.

      

      CAPITOLO 6

       Tutto prendeva luce da lei: era lei il sorriso che illuminava tutto, d’ogni intorno.

       (Leone Tolstoj: Anna Karenina)

      Le luci del pomeriggio

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