La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli
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«Non se ne parla nemmeno!», rispose l’altro. «Dobbiamo rimanere lucidi, almeno fino all’ora di pranzo, per portare a termine la missione che ci è stata affidata dal Duca. Dopo che avremo infilzato allo spiedo il damerino di corte e la sua guardia del corpo, potremo festeggiare. Cerca di fare silenzio, piuttosto. Siamo sotto le mura del castello. Non vorrai mica tirarti addosso tutta una guarnigione di militi?»
Amilcare fece un gesto con la mano, come se volesse scacciare un fastidioso insetto.
«Il Duca ha detto che non dobbiamo preoccuparci, né qui a Rocca Priora, né quando saremo arrivati alla Torre di Montignano. Ha unto i cardini delle porte giuste e nessuno si curerà di noi. Vedi soldati che ci scrutano sui camminamenti della guardia?»
«No, ma questo non è che mi rassicuri. Saranno ben nascosti, ma ci stanno di certo osservando.»
«Ma non ci fermeranno. E alla torre di Montignano non troveremo nessuno. Avremo campo libero, prenderemo posizione, aspetteremo i due e li faremo secchi senza che neanche se ne accorgano. Un lavoretto semplice e pulito. Poi non resterà che tornare ad Ancona a riscuotere il compenso e via… Verso casa. Non vedo l’ora di ritornare alle nostre care montagne. E, appena possibile, stai sicuro che busserò alla porta del borgomastro di Vipiteno per fare una bella scorta di buona birra. Altro che vino!» E così dicendo emise un altro sonoro rutto in direzione di una feritoia sulle mura del castello, dietro la quale aveva avuto l’impressione di veder brillare occhi che osservavano la scena. Ma nessuno, dalla rocca, diede segno di vita e i due la superarono senza problemi. Avanzarono verso settentrione lungo la riva del mare, con i cavalli che faticavano un po’ ad avanzare nel terreno ghiaioso, fino a raggiungere il Mandracchio, un baluardo fatto ergere dal Piccolomini a difesa dell’entroterra dalle scorrerie dei pirati. Entrarono nella fortezza e fecero abbeverare i cavalli, poi si dissetarono essi stessi alla fonte di acqua fresca. Il piazzale, già di prima mattina era un andirivieni di persone di tutti i tipi, da contadini che con il carretto carico di frutta e ortaggi si dirigevano a vendere i loro prodotti al mercato di Monte Marciano, a signorotti locali che esigevano le decime dai contadini per continuare a coltivare i terreni di loro proprietà, ad armigeri che sellavano i cavalli, dopo averli accuratamente scelti nelle stalle. Uno stalliere si avvicinò a Matteo e Amilcare e, dopo aver superato il ribrezzo dovuto all’odore che essi emanavano, si rivolse a loro in maniera gentile.
«Avete forse bisogno di cavalcature fresche, messeri? Per due denari prendo i vostri cavalli in consegna e ve ne do in cambio due ben riposati. Quando ripasserete di qui, al ritorno, potrete riprendere le vostre cavalcature.»
«Non so se ripasseremo di qui al ritorno», replicò Matteo, facendo in modo che non fosse Amilcare a rispondere, essendo quest’ultimo molto più rude di modi rispetto a lui. «I cavalli sono del Duca di Montacuto, ed è meglio che glieli riportiamo. Ne va delle nostre teste. Piuttosto, dobbiamo raggiungere la torre di Montignano. Ormai non dovrebbe essere molto distante. Indicaci la strada migliore.»
«Qual è la ricompensa per l’informazione?», chiese il ragazzo a Matteo, facendo buon viso a cattivo gioco.
Matteo versò parte del vino rosso da una delle otri piene a quella che conteneva la birra, svuotata poc’anzi, e la offrì al giovane stalliere.
«Questo dovrebbe essere sufficiente. Se poi non ti bastasse, posso sempre offrirti di annusare l’alito del mio compagno. Non c’è che da chiedere!»
Il ragazzo guardò Amilcare con aria schifata e accettò l’otre che gli veniva porta.
Prendete per il vallone e portatevi ai piedi della collina. Non dirigete verso il centro abitato di Monte Marciano, ma tenetevi verso destra a raggiungere la cresta del colle. Seguite sempre il sentiero sulla sommità della collina e giungerete alla torre molto prima dell’ora del desio. Buona fortuna!»
«Buona fortuna a te, ragazzo. E grazie.» Matteo avrebbe quasi tirato fuori una moneta dal sacchetto che aveva loro elargito il Duca la sera precedente, ma lo sguardo di Amilcare lo fece desistere dal ricompensare ulteriormente lo stalliere.
Ha ragione Amilcare, disse tra sé e sé Matteo. Con il suo fare gentile, costui potrebbe essere una spia e metterci alle costole dei ladri, una volta visto il sacchetto con le monete. Meglio non dover rischiare di perdere tempo a dover sgozzare dei volgari ladruncoli!
Per il Duca Francesco Maria Della Rovere, cacciare il Medici da Urbino e rientrare in possesso delle sue terre Feltresche era ormai una questione di principio, ed era ormai giunto il momento giusto. Suo padre Giovanni Della Rovere, signore di Senigallia, aveva fatto edificare dall’architetto e stratega Francesco di Giorgio Martini una maestosa rocca a Mondavio, in pratica a metà strada tra Senigallia e Urbino. Francesco non capiva molto la posizione strategica di quella sontuosa rocca, in quanto essa si trovava del tutto all’interno dei loro possedimenti, e non in una posizione di confine, dove sarebbe stato giusto fosse. In quel punto non sarebbero stati mai attaccati, e infatti la rocca non aveva mai subito assedi da quando ne era stata terminata la costruzione, e da quel giorno erano passati quasi trent’anni. Ma la rocca era una maestosa fortezza e si presentava all’occhio umano come una spaventosa macchina da guerra, in cui ogni forma e struttura era studiata per resistere agli attacchi sferrati sia dalle armi tradizionali, a getto, sia dalle più moderne armi da fuoco, che ormai stavano sempre più diffondendosi. La rocca stessa era fornita delle più micidiali macchine da guerra conosciute: catapulte, trabucchi, bombarde e altre diavolerie micidiali. Nell’armeria erano presenti anche una tale quantità di fucili, pistole e archibugi, da poter armare una guarnigione di un migliaio di armigeri. Il deposito dove veniva conservata la polvere da sparo era ben isolato e protetto, e i custodi avevano appeso alle pareti un’immagine di Santa Barbara, a voler scongiurare, grazie alla sua protezione, il pericolo di scoppi accidentali.
Pertanto il Duca aveva scelto di trasferirsi qui, lasciando la Rocca Roveresca di Senigallia, perché Mondavio rappresentava un ottimo punto di partenza per ripartire alla conquista di Urbino. E doveva farlo prima che ci arrivasse il Malatesta da Rimini o, peggio, da Pesaro. La tarda primavera dell’anno del Signore 1522 era il momento giusto per muovere le proprie guarnigioni. Il Papa Leone X era morto ed era stato sostituito dal Cardinale Adriano Florentz di Utrecht, che aveva preso il nome di Adriano VI. Questi era un burattino, i cui fili erano tirati dall’oligarchia ecclesiastica, e tutti erano convinti che non sarebbe durato molto prima che il Cardinale di Firenze, Giulio De’ Medici, avesse architettato qualcosa per riconquistare il soglio pontificio. Quindi bisognava approfittare del momento, anticipando le mosse sia del Malatesta, sia dei Medici. Ma riteneva il suo luogotenente, Orazio Baglioni, un incapace. E, se anche non fosse stato un incapace dal punto di vista strategico e militare, lo riteneva comunque una spia del Malatesta. Solo pochi mesi prima, a Dicembre, Francesco era alleato con il Malatesta, e insieme a lui aveva ricacciato le legioni pontificie da Fabriano e da Camerino, ripristinando il potere dei Duchi di Varano, e dirigendosi poi con le milizie unite verso Perugia. Si erano fermati alla notizia della morte di Papa Leone X, rientrando rispettivamente nei loro territori di Senigallia e Pesaro. Ufficialmente Francesco Maria Della Rovere era ancora alleato con il Malatesta, e prova ne era quel luogotenente che continuava ad avere tra i piedi. Era necessario eliminarlo e prendere un valido sostituto al suo posto, se voleva entrare a Urbino in modo veloce, beffando il suo vecchio alleato. Un nome solo gli frullava per la testa, quello di Andrea Franciolini. Aveva preso informazioni su di lui, al tempo in cui aveva assalito la città di Jesi, qualche anno prima. I mercenari al suo soldo lo avevano ridotto in fin di vita, ma se l’era cavata. Non aveva capito bene come fosse scampato alla condanna a morte che pendeva sulla sua testa, forse con lo zampino del Duca di Montacuto, per lo meno così si diceva in giro. Il Franciolini era giovane, ma aveva fama di essere in gamba, sia come condottiero, sia come combattente. Ma allo stato