La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli

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La Corona Bronzea - Stefano Vignaroli

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uomo che sa amare dolcemente una donzella.»

      Padre Ignazio, conscio della trappola in cui lo stava attirando la contessina, arretrò. Lì dentro erano loro due da soli. Sapeva bene che la giovane non si sarebbe fatta scrupolo di accusarlo di aver cercato di abusare di lei, anche con la violenza. E sarebbe stata la parola sua contro quella di lei.

      «Copritevi, per favore! Non è corretto da parte vostra cercare di indurmi così in tentazione. Ditemi cosa volete che io faccia, e lo farò», disse con un filo di voce e la testa bassa.

      «Lo sapevo che eravate un impotente», continuò Lucia, prendendo dal candelabro sopra la scrivania una candela accesa e porgendogliela. «Perché non provate a versare sui miei seni della cera bollente? Forse così inizierete a eccitarvi, e poi avrete finalmente voglia di possedermi. Ma no, vedo che ancora indietreggiate, vi allontanate da me. Oltre che un impotente, siete anche un vigliacco!»

      «Basta, vi prego! Ve lo ripeto: ditemi quello che volete io faccia e lo farò!»

      Il sacerdote vide con sollievo Lucia riporre la candela e riallacciarsi la veste, per poi proseguire il suo discorso. Sentiva il sudore imperlargli la fronte e scendere copioso lungo la schiena.

      «Volete sapere la verità? Tanto siete un vigliacco e non avrete il coraggio di riferirla a nessuno. Non è Mira la responsabile della morte di mio zio, ma io. Sono stata io a ferirlo e provocarne la caduta dal balcone. E adesso che avete saputo, vi dico quello che voglio che facciate. Proscioglierete Mira dalle accuse di stregoneria. Direte che erano accuse infondate e riconsegnerete la mia ancella al Giudice Uberti. Fatto questo, iniziate a preparare i bagagli. Vi voglio lontano da Jesi, il più lontano possibile. Domani stesso manderò un messaggero al Santo Padre, ad Adriano Sesto, consigliando il vostro trasferimento in Alta Savoia. Lassù le eresie imperversano e un inquisitore come voi saprà bene il da farsi per combatterle. C’è bisogno di voi, in quelle terre di confine, per ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite!»

      «Il nuovo Santo Padre?», replicò Padre Ignazio, ora impallidendo visibilmente, sentendo tutte le sue certezze venir meno.

      «Siete stato così indaffarato a servire la vostra Santa Madre Chiesa, da non essere neanche venuto a conoscenza del fatto che il soglio pontificio è stato occupato dal Vescovo Adriano Florensz da Utrecht, più di quattro mesi or sono? Dopo la morte di Leone Decimo, il conclave ci ha messo parecchio a eleggere il nuovo pontefice. Ma alla fine, ha scelto, e non il Vescovo di Firenze, Giulio De’ Medici, come forse voi vi aspettavate.»

      «E quindi, la Chiesa è governata ora da un uomo vicino ai Riformatori? E il nostro legato pontificio? Quando giungerà in sede?» Padre Ignazio era del tutto scosso dalla notizia.

      «Come siete mal informato, mio caro! Il Cardinal Cesarini è giunto da Roma già alla metà dello scorso mese di marzo, ma sembra che Jesi non sia una sede che abbia incontrato le sue grazie. Ha lasciato un suo vicario, ritornandosene ben presto in quel di Orvieto. Considerando la sua perenne assenza, le autorità civili ne hanno richiesto la sostituzione. Ma aspetteremo notizie da Roma, che di certo non tarderanno ad arrivare. Datemi ascolto, preparate i bagagli, prima che tutto il male che avete fatto si ritorca contro di voi. Ancora siete sotto la protezione di quell’abito che portate, ma credo proprio che quei panni, ben presto, vi saranno stretti.»

      Padre Ignazio, non avendo più nulla da replicare, si diresse a testa bassa verso la porta, uscì passando accanto al Giudice Uberti senza neanche degnarlo di uno sguardo, e si dileguò per i meandri del torrione. Certo, in quei mesi era stato tanto concentrato nel dimostrare che Mira fosse una strega, che aveva perso del tutto il contatto con la realtà!

      Ancora frastornata dal colloquio appena conclusosi e immersa nei suoi pensieri, Lucia neanche si era accorta che il Giudice era rientrato nella stanza, aspettando con pazienza che gli rivolgesse la parola. Sentì la frase uscire dalle proprie labbra come se fosse qualcun altro a parlare.

      «Le accuse di stregoneria nei confronti di Mira sono cadute. Tocca a voi giudicarla. Siate clemente con lei!»

      «La sua colpevolezza nell’essere stata responsabile della morte del Cardinale è ormai ampiamente dimostrata. E, per un assassino, la condanna è la morte. C’è poco da discutere. L’unica clemenza che posso riservarle è quella di un’esecuzione veloce e senza pubblico che assista. Mira verrà decapitata domattina all’alba. Non renderò pubblica la notizia. Sarà una questione tra lei e il boia.»

      «L’unica cosa che chiedo è che non soffra», replicò Lucia, stringendosi nelle spalle.

      «Un colpo netto, ben assestato, e la testa della giovane rotolerà sul selciato della Piazza della Morte. Mira non farà neanche in tempo a rendersi conto di non avere più la testa attaccata al collo.»

      Lucia sentì le lacrime che stavano per prorompere dai suoi occhi, ma le ricacciò, avvertendo il loro sapore salato in gola. I suoi truci pensieri furono interrotti da un insolito clamore, che giungeva alle finestre dall’esterno, dalla Piazza del Palio e dalle vie limitrofe. Una folla di persone, provenienti dal contado, armate di forconi, coltelli e altri rudimentali attrezzi, stava entrando in città da Porta Valle e si dirigeva minacciosa verso la parte alta della città.

      «A Palazzo. Raggiungiamo la Curia vescovile!»

      «A morte il vicario del Cardinal Cesarini!»

      «A morte il ladro, a morte l’usurpatore!»

      Lucia, sentendo quelle frasi capì cosa stava per accadere, e capì che la situazione era davvero grave. Doveva far qualcosa per fermare quella gente e per evitare un inutile spargimento di sangue.

       Una rivolta popolare, in questo momento, significherebbe la fine per questa città. Devo evitare che questi villani trasformino il centro in una carneficina. La popolazione è già stata decimata dalla peste, ci mancano solo le lotte intestine tra cittadini per ridurre Jesi al lumicino.

      CAPITOLO 4

      Il castello di Massignano era accogliente e sicuro, ma Andrea si era davvero stancato di addestrarsi contro il Mancino e i suoi sgherri. Non che la compagnia di questi uomini rudi gli dispiacesse. Spesso la sera beveva vino e giocava a dadi insieme a loro e più di una volta si era addormentato in preda ai fumi dell’alcol sul nudo pavimento, addosso agli altri sgherri. Certo, il Mancino, nonostante avesse perso da tempo l’uso del braccio destro, ci sapeva fare, e più di una volta gli aveva fatto volar via la spada dalle mani. Più passava il tempo e più i due diventavano amici, ma Andrea era un uomo d’azione, e un nobile per di più, e spesso si chiedeva quanto a lungo avesse dovuto sopportare quella semi prigionia, per far piacere al Duca di Montacuto, a dimostrazione della sua riconoscenza per averlo salvato dal patibolo. Da un giorno all’altro, Andrea aspettava che il Duca lo convocasse e lo facesse finalmente partire per il Montefeltro, dove avrebbe messo le sue qualità di condottiero nelle mani di un potente Signore. E già, non ne poteva proprio più di continuare a trascorrere il suo tempo in quella maniera assurda. Era come se il Duca ci facesse apposta a tenerlo in quella condizione di stallo, come se godesse del fatto di tenerlo inattivo il più a lungo possibile.

      «Se il Duca non ha ancora organizzato il tuo trasferimento, si vede che c’è qualche ostacolo, materiale o politico che sia. Il mio padrone è un uomo accorto, anche se all’apparenza sembra una persona più rude di noi che lo serviamo. Ma quello che ha in più, rispetto a noi, è la capacità di far ragionare la sua

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