Saudade. Ursula Sila-Gasser
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Sempre in cucina, sempre il 19 giugno
Dopo aver riletto ciò che ho appena scritto, volevo annaffiare il mio basilico. Mi sono persino alzata per farlo, ma non sono riuscita ad andare fino al lavandino per riempire l’annaffiatoio. È scoppiata in me una protesta violenta. Veniva da dove inizialmente non me la sarei aspettata. Anche se… Avrei dovuto immaginare cosa sarebbe successo: la prima ondata di protesta è una ribellione interna, e chi l’ha causata, è molto facile da identificare. Ovviamente è di nuovo la mia Parte Sdolcinata (che abbrevierò d’ora in poi, per ovvie ragioni pratiche, in PS).
La mia PS, quindi, rileggendo quello che ho appena scritto, ha emesso un lungo sospiro. Non le piacciono le iniziali. Preferirebbe parlare dei miei nipoti usando i loro nomi di battesimo, soprattutto perché sono nomi molto carini. Ha comunque un solo desiderio: credere che sarà capita e che, una volta capita, tutto andrà bene. Ha difficoltà ad emergere dai suoi sogni di riconciliazione, di riunificazione, di una grande festa, di risate tra cugini, ricordi evocati con piacere. Sì, è così, la mia PS crede troppo in fretta al lieto fine.
Ma le cose non sono sempre così semplici, e spesso, la mia PS mi ha coinvolta in attività rischiose, alcune delle quali sono finite male, facendole trarre alcune lezioni, rendendola più ragionevole e facendole capire che è meglio prendere delle precauzioni.
Oggi, tuttavia, pensa che io stia esagerando. Non riesce a mandar giù il tono sarcastico e beffardo delle mie prime lettere.
Mi rimprovera anche un po’: possibile che io non c’entri niente con questa faccenda? Che ne è del mio lato a volte intransigente? La mia impazienza, la mia rabbia, che montano all’improvviso e dettano e-mail secche e indigeste come le tasse? Le mie arie severe da maestrina, le mie paure, la mia codardia, che fanno impantanare tutto nella melassa?
La mia PS ha ragione e farò meglio ad ascoltarla più spesso, ma oggi sono l’unica accusata in questa storia e non è giusto! Il tribunale di famiglia si sbaglia di grosso! È giunto il momento di dare la parola all’imputata, di esaminare i fatti. Che sia fatta giustizia. La mia PS mi dà una pacca sulla spalla, aggiungendo: “Senza giudizio o condanna”. Benissimo. Voglio provarci, ma anche senza sottomissioni!
Ho fretta, FM. Ho voglia di scrivere da tanto tempo. Intendo, davvero molto tempo. Almeno dall’età di 7 anni, dall’epoca del mio primo romanzo. Ti ricordi? Era scritto su quattro pagine A4 ripiegate, tenute insieme al centro da graffette. Riccamente illustrato con disegni di giraffe, elefanti, pinguini, raccontava la storia di una bambina che visitava uno zoo tenendo il suo fratellino per mano. Ti avevo regalato il mio quadernino e, nonostante la trama piuttosto scarsa, senza colpi di scena, lo avevi apprezzato.
Oggi sarai meno indulgente e non lascerai spazio a errori.
Dovremo andare indietro nel tempo, ben prima del giorno in cui visitammo lo zoo di San Paolo mano nella mano. Bisognerà viaggiare, attraversare più volte l’Atlantico.
Con i saluti della mia PS,
Mathilde
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Oma3 e Opa 4
Germania del nord, anni venti. La Grande Depressione. Un’inflazione che moltiplica i prezzi non per due, non per cento, per mille o per milione, che già sarebbe stata un’enormità, ma per dieci milioni, un miliardo, mille miliardi. Serve una carriola per far compere: non per portare a casa la merce, ma per trasportare le banconote al supermercato. Capita che i prezzi aumentino più volte al giorno. Le code fuori dai negozi sono infinite. Molti tedeschi trascorrono le loro giornate in coda, cercando di sbarazzarsi rapidamente dei loro soldi prima che perdano valore. I contadini non portano più nemmeno i loro beni in città, perché non vale la pena scambiarli con il denaro. Gli abitanti delle città non sempre riescono a saziarsi.
La super inflazione5 cessa nell’ottobre 1923 e sembra che una relativa prosperità abbia inizio.
È qui che inizia la storia di Oma e Opa, i nostri nonni materni. Gli anni ‘20 corrispondono ai loro 20 anni.
Ma la fine della super iperinflazione non risolve tutti i problemi di Opa. Dopo il suo apprendistato come sarto, deve tentare la fortuna altrove perché il laboratorio di famiglia è rilevato da suo fratello maggiore.
Il Brasile fa sognare molti tedeschi e Opa ha un fratello che abita a San Paolo. Così, è su un mercantile pidocchioso che i nostri nonni materni attraversano l’Atlantico per sbarcare a Santos.
In cucina, il 27 giugno
Buongiorno FM,
“Cosa? Vuoi tornare indietro di due generazioni? Ma è follia pura!”, esclamerai senza dubbio leggendomi. “Non ho solo questo da fare”, aggiungerai, ovviamente. Ma non mi lascerò scoraggiare, per ora. Se colloco l’origine di questo caso in un’epoca così remota non è a causa di un capriccio romantico della mia PS, come forse potresti pensare. No, ho le mie ragioni, e spero con tutto il cuore di essere in grado di fartele capire mentre leggi la mia storia.
Considerati fortunato, perché sono tentata di andare anche più oltre. Ai nostri bisnonni, per esempio…ma per tua fortuna non ho molte informazioni su di loro. Quindi, tornerò ai nostri nonni materni.
Anche il fratello che ho tenuto orgogliosamente per mano dall’alto dei miei 7 anni, mentre visitavamo lo zoo di San Paolo, avrebbe voluto saperne di più. La voce di mio fratello s’inteneriva quando parlava di Opa e del suo eterno sigaro in bocca.
Vorrei davvero poter chiamare Oma e farle delle domande.
“A che numero?”, mi chiederesti, probabilmente. Sono passati più di trent’anni dall’ultima volta che le ho parlato, ma il numero di telefono non è un problema. Lo ricordo ancora a memoria, anche se mi viene in mente solo in portoghese: meia - um - sete - zero - meia- sete. 617. 067. Vedi? Ho buona memoria. Detto tra noi, non pensi che questo dovrebbe convincere i nostri genitori della mia buona capacità di memorizzare?
Se Oma avesse potuto rispondere al telefono sarebbe stata senza fiato. Il suono del telefono doveva essere per forza una cattiva notizia, allora lei correva. Oma, per natura, non era ottimista, per usare un eufemismo.
Se in questo caso potessi farle delle domande, sarebbe felice di parlarmi del suo passato. A Oma piaceva farlo. Penso che le sia mancata la sua terra natale. A volte mi raccontava della sua infanzia nella piccola città nel nord della Germania, della sua scuola, alla quale si recava in bicicletta attraversando la pianura, dello stagno ghiacciato, su cui pattinava con le sue amiche in inverno. Anche della primavera, la sua stagione preferita, quando le piaceva spiare la comparsa dei primi fiori sugli alberi spogli.
Ascoltavo Oma piena di meraviglia. A quel tempo, non conoscevamo né i cambi di stagione, né gli alberi spogli, né i laghetti ghiacciati. Telefonare a Oma, però, rimarrà ovviamente solo un’idea stravagante: nel luogo in cui si trova oggi con Opa, non esiste una linea telefonica.
La linea telefonica stessa, probabilmente, è scomparsa insieme alla casa, demolita dai bulldozer con l’indifferenza che caratterizza questo tipo di macchine, insensibili alle mie vaghe proteste interiori quando ho immaginato il saccheggio del giardino, luogo di molti ricordi, di giochi con i nostri cugini.
È vero che la distanza tra me e i bulldozer (vivevamo già a qualche decina di migliaia di chilometri, in un altro continente) e la discrezione con cui ho espresso