Italo Svevo: Opere Complete - Romanzi, Racconti e Frammenti. Italo Svevo

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Italo Svevo: Opere Complete - Romanzi, Racconti e Frammenti - Italo  Svevo

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complicazioni di quella giornata. Ma al funerale di Jassy, il più vecchio dei quattro, si osservò per la prima volta che le due teste bianche si tenevano lontane. Il dottore (per antonomasia Ciappi veniva chiamato così) guardava di nascosto verso Rultini in attesa di essere avvicinato da lui; il professore invece, Rultini (per i suoi studî linguistici, con qualche ironia, veniva detto professore), guardava altrove, duro, impettito. Da allora non scambiarono più una sola parola, il che destò generale sorpresa perché la questione per il posto di Venezia durava già da lungo tempo e da principio i due vecchi avevano affettato anche maggiore amicizia che di solito.

      Ciappi raccontava che c’era stata una disputa alla quale egli non credeva che Rultini avrebbe dato tanta importanza; era scoppiata all’osteria per un motivo futile, una parola detta da lui leggermente, senza malizia. Un giorno, trovandosi nella stanza di Alfonso, provò il bisogno di parlare anche a lui delle sue relazioni con Rultini. Alfonso comprese ch’era una mossa diplomatica astuta ma sbagliata; Ciappi lo credeva ancora sempre amico in casa Maller e sperava conquistarsene la simpatia e influire col suo mezzo su Maller.

      — Rultini mi odia ora, ecco la ragione per cui un semplice battibecco, quali ne abbiamo avuti insieme parecchi, possa essere degenerato in tale modo. A lui sembra che io l’abbia tradito, ma per amicizia a lui io non poteva mica sacrificare la maggior fortuna a cui io possa mai aspirare. Io però volevo restare suo amico e si poteva limitare la rivalità a quel solo punto. Egli invece perdette la testa in modo indegno.

      L’indignazione di Ciappi era bellissima, umana, ma alla banca si diceva ch’era lui che aveva le maggiori probabilità di vittoria, e infatti, con la sua scienza legale, doveva apparire più idoneo al posto di dirigente che l’altro con la sua filologia, e perciò Alfonso, pur dicendo di dargli ragione, pensava che al posto di Rultini neppur Ciappi sarebbe stato tanto ragionevole e calmo.

      Ebbe anche l’occasione di sentire dall’altro le sue ragioni. Era andato in contabilità a cercarvi un copialettere e s’era fermato a parlare con Miceni, mentre Rultini in un canto con Marlucci discuteva focosamente ma a bassa voce. Miceni fece cenno ad Alfonso di tacere e stettero ambidue ritti ma in attitudine di parlarsi, così che gli altri due infervorati sempre più non si accorsero di essere ascoltati.

      Rultini per primo alzò la voce:

      — Egli sapeva che io assolutamente avevo bisogno di quel posto perché la mia posizione qui non è sostenibile, mentre a lui il mutamento apporta poco vantaggio. Il suo è quindi un tradimento.

      Anche Marlucci gridò per farsi udire, ma pacatamente, da persona cui è facile vedere le cose oggettivamente. Disse che non si poteva esigere da nessuno che rinunziasse ad una tale buona fortuna per amicizia e ch’egli dava torto a chi per primo aveva fatto di una rivalità d’affari un’inimicizia privata. Sarebbe stato dovere di Rultini di fare al più presto la pace con Ciappi.

      Rultini gridò ch’era disposto a tutto, magari a rinunziare volontariamente al posto ambito, ma non a fare questa pace. Asseriva che questo suo odio non era nato per il solo fatto della loro rivalità in affari, ma perché all’osteria, dinanzi ad altre persone, senz’alcun riguardo, gli aveva rimproverato un errore fatto nell’ultima liquidazione.

      — Egli è astuto! si dà l’aria d’indifferente, ma intanto lavora quieto all’ombra, rubandomi quel poco di considerazione di cui ancora posso godere.

      Aveva sul suo volto grasso, ancora senza rughe, una grande sorpresa dolorosa che sentendosi tanto infelice gli venisse anche dato torto, e ad Alfonso fece compassione.

      Uscito Rultini, Marlucci, con certo risolino cattivo, si rivolse a Miceni: — Gli ho detto la mia opinione.

      Avvenne l’imprevisto. Maller accordò il posto di dirigente della filiale di Venezia a Rultini. La filiale di Venezia non doveva occuparsi che passivamente di affari di Borsa, accettare cioè ordini e trasmetterli alla casa madre, e forse un motivo che aveva fatto prendere a Maller tale decisione fu precisamente il desiderio di liberarsi da un liquidatore incapace.

      Il primo annuncio che si ebbe di tale scelta fu precisamente nel contegno dei due vecchi. Parve che avessero scambiate le teste come per incanto. Rultini, che da tanto tempo era triste e brusco, divenne allegro e amichevole. Sembrava che si trovasse in una festa continua; stringeva con calore le mani che gli venivano offerte per congratulazione e s’inquietava quando vedeva faccie tristi. Fermò un giorno Alfonso col quale fino allora non aveva scambiato che poche parole, e gli chiese la ragione della sua tristezza. Trasalendo Alfonso voleva pur dire qualche cosa in risposta, ma Rultini, nella sua gioia inquieta, non ebbe il tempo di attendere. Se ne andò gridandogli:

      — Non inquietarsi mai; questa è la massima più importante per essere felici. — In fondo, della tristezza altrui poco gl’importava, ma lo sorprendeva: — Come? C’era ancora chi si lagnasse?

      Eppure, anche all’infuori di quella di Alfonso, alla banca esistevano altre tristezze. Soltanto cinque giorni dopo Ciappi venne all’ufficio; per quei cinque giorni s’era dichiarato ammalato. Il primo giorno rimase soltanto per un’oretta in ufficio e ne venne scacciato dagli sguardi indiscreti dei colleghi, i quali sapevano che a lui stesso la disfatta doveva aver apportato sorpresa e volevano vedere come la sopportasse. Non senza dignità, e dopo alcuni giorni tutti dovettero riconoscerlo. Quando si mise a lavorare, apparve non troppo triste, lavoratore esatto come sempre. Per affari d’ufficio parlò anche con Rultini, mentre costui prima del suo successo aveva evitato di venir a contatto con lui anche per tali affari. Per completare la sua felicità, Rultini non desiderava che di fare la pace col suo vecchio amico e gli gettava degli sguardi amorevoli, ma Ciappi faceva il sordo e lo trattava con una freddezza glaciale. Anche quando era costretto a parlargli per affari d’ufficio, non lo guardava in faccia.

      — Ah! così? Adesso che mi ha ammazzato vuole la mia amicizia?

      Rultini confessò a Marlucci ch’era pentito di aver questionato con Ciappi, ma che però in lui l’ira era stata giustificabile, perché se Ciappi fosse stato il preferito sarebbe stata un’ingiustizia palese. Ciappi non aveva alcun diritto di serbargli rancore.

      — Che mi ceda il suo posto e la sua paga e naturalmente anche la sua scienza acciocché io mi possa sentire idoneo al suo posto e felice, ed io sono dispostissimo a lasciarlo andare in vece mia a Venezia.

      Anche queste espressioni vennero riferite a Ciappi.

      — Dargli la mia scienza e la mia pratica? Se non fosse stato sempre tale un poltrone se le sarebbe conquistate da sé. Vi garantisco io che, per quanto poco si richieda da lui a quel posto, sarà sempre troppo, e, se Maller non sarà pronto a porvi riparo, un bel giorno apprenderà che la sua filiale, contrariamente al suo volere, avrà fatto un atto indipendente; sarà fallita per proprio conto.

      Maller riseppe di quest’odio e lo credette anche maggiore di quanto realmente fosse. Per prudenza fece partire Rultini una settimana prima dell’epoca stabilita.

      Rultini andò alla stazione accompagnato trionfalmente dagl’impiegati più anziani, compresi Marlucci e Sanneo. Marlucci disse poi ch’egli perdeva molto in Rultini, il più vecchio amico che avesse alla banca:

      — Non capisco come Ciappi abbia potuto comportarsi in quel modo.

      Alfonso, dinanzi al quale Marlucci lasciò cadere questa frase, pensò che il toscano aveva la buona abitudine di essere sempre del parere del più fortunato.

      Lottatore accanito quel Giacomo, il ragazzetto dalle guancie rosee per il quale Alfonso aveva sentito tanto affetto. Il giovanetto era cresciuto, dimagrito, aveva perduto del tutto i colori che aveva portato dal suo Friuli e il suo volto, allungandosi, aveva preso la forma

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