lui essere stato più pietoso dai Fiorentini, che per fuggire il nome di crudeli lasciarono distruggere Pistoia[28]: onde i popoli gli posero amore[29], avendo incominciato a gustare una vita sicura, laddove prima, per essere retti da signori impotenti, vôlti piuttosto a spogliare che a correggere i sudditi, intesi a disunire anzichè a congiungere, gemevano per quotidiane violenze e latrocinii[30]. E che le mie parole non si possano mettere in dubbio si fece manifesto quando la fortuna, di prospera che gli era, gli si volse all'improvviso contraria; imperciocchè la Romagna lo aspettò più d'un mese, nè Baglioni, Vitelli e Orsini ebbero seguito contro di lui: e se alla morte del padre non lo avesse condotto il veleno a termine estremo, non rovinava; «ed egli stesso il dì che fu creato Giulio II mi disse bene avere pensato a quanto potesse succedere morendo il padre, e a tutto avere trovato rimedio, eccettochè non pensò mai in su la sua morte di stare anche lui per morire[31].» Inoltre, che il Valentino, un tempo felicissimo tra i capitani, non fosse il più malvagio dei principi, o che alla voglia di superarlo gli emuli suoi non accoppiassero pari lo ingegno, consideratelo in Oliverotto da Fermo, spento per suo comando a Sinigaglia[32]; perditissimo uomo era costui, ladrone più che soldato, carnefice più che principe, e parricida del Fogliani, il quale con amore veramente paterno lo aveva allevato[33]. Dei Baglioni sapete i costumi: Orazio ordinò si uccidesse lo zio Gentile; e quasi dubitasse quel delitto poco a guadagnargli l'inferno, di sua propria mano trucidava più tardi messer Galeotto Baglioni, mentre si disponeva a rendersi prigione sotto la fede del duca d'Urbino[34]. Il Valentino agli occhi miei rappresentava astrattamente un uomo spaventevole; praticamente, la potenza capace di rilevare l'Italia sopra l'antica sua base; divenuto privato, forse le qualità raccolte in lui erano tali da condannarlo alla pena dei masnadieri: finchè resse da principe, poteva di fronte agli altri ammirarsi ed anche lodarsi rispetto allo scopo, quantunque la bella morte da lui incontrata in Navarra combattendo alla espugnazione del castello di Viana lo mostrasse degno di non essere affatto sbattuto dalla fortuna[35]. E sempre fisso nel medesimo pensiero, caduto il Borgia, mi volsi a Lorenzo dei Medici duca d'Urbino e lo ammaestrai delle condizioni dei tempi e partitamente gli scopersi le vie per mantenersi e crescere. S'io lo guidassi traverso le male bolge dell'inferno per quinci trarlo a rivedere le stelle, consideratelo nella esortazione a liberare l'Italia dai barbari che chiude il libro del Principe. Esaminate con mente pacata i miei scritti, e nonchè vi apparisca discrepanza veruna tra loro, comprenderete di leggieri come tutti insieme cospirino allo scopo proposto. Il Principe, a guisa di punto di partenza; i Ritratti dei popoli stranieri, le Storie e le Osservazioni intorno gl'Italiani contenute nelle mie Commissioni, siccome mezzi di appianare la via; i libri sopra la Guerra, come precetti a ristorare le milizie proprie, le mercenarie sopprimere, perpetua cagione di servitù; finalmente i Discorsi sopra le Deche di Tito Livio, come termine estremo. Dalle Lettere per me dettate a mitigare o fuggire la malignità dei tempi non deve ricavarsi argomento per giudicarmi meglio che dalle risposte fatte al cancelliere quando fui posto a esame nella congiura del Boscoli. Nè certo, dopo la casa Borgia, veruna altra in Italia pareva più acconcia di quella dei Medici a conseguire l'intento. Leone X, pontefice di singolare giovanezza, uno stato floridissimo, cresciuto per opera di Alessandro VI e di Giulio II, reggeva[36]; la repubblica nostra come signore dominava; il conquisto di Milano e di Napoli disegnava; in lui erano facoltà e mente capaci; lo circuiva numerosa famiglia. Giulio, adesso papa di meschini concetti, mostrava da cardinale attitudine maravigliosa in eseguire gli altrui divisamenti[37]. Viveva Giuliano duca di Nemours, Lorenzo duca d'Urbino viveva. Non pertanto andarono tutte queste speranze disperse. Leone morì di morte immatura, Giuliano anch'egli precipitò nel sepolcro per debolezza del corpo, vi si gettava da sè stesso precocemente Lorenzo a cagione della immoderata lussuria. Mancò papa Clemente a sè stesso, la famiglia generosa a lui. Simili eventi dimostrano non già la fallacia nello argomentare, sibbene la miseria degli umani disegni, i quali ti si nabissano sotto quando meglio ti paiono fermi. L'uomo trama, la Fortuna tesse; e se alla seconda non piace corrispondere al concetto del primo, a questo basti avere ricercato la cagione delle cose con quella prudenza che per lui si poteva maggiore. Forse così pensando la mente errava, non però il cuore; ad ogni modo tutte le cose nostre hanno un destino che l'uomo non può vincere, e il mio consiste nel contemplare la mia fama avvilita da coloro che ammaestrai ad essere grandi.... Vi aveva io forse raccomandato che voi prendeste cura della mia fama? Se pure l'ho detto, adesso mi disdico. Che giova dar di cozzo nei fati? In quella guisa che voi, Zanobi, avrete veduto a Roma gli obelischi, una volta decoro della superba città, adesso giacere infranti, mezzo coperti dalla terra e dall'erba, così deve per un tempo giacere il mio nome, finchè non appariscano anime forti da rilevarlo sublime. Intanto uomini che si vanteranno filosofi, travolti anch'essi dalla mala opinione dei tempi, esulteranno della mia morte e non dubiteranno raccontare ai posteri «essersene rallegrati i buoni e i tristi; i buoni per conoscermi tristo, i tristi più tristo di loro.[38]»; e la verità, la quale ascende tal ora animosa i roghi e i patiboli, e dalle stesse fiamme scellerate e dal corruscare dalle mannaje si compone di un aureola di luce divina, tal altra poi fugge dall'errore suo nemico tutta tremante e si ripara nel seno di Dio; la verità, dico, si rimarrà per lunga stagione di spargere il suo lume sopra la mia memoria. Quando tenebre di servitù e di obbrobrio oscureranno l'Italia, la mia fama rimarrà muta, e sarà benefizio dei cieli, chè la lode di codardi offende amara, come l'ingiuria dei generosi. Ma se mai l'alba della libertà fie che torni a diffondere raggi vitali sul fiore appassito dalla speranza, allora come la statua di Mennone soneranno le mia ossa un fremito di gloria; i posteri verranno alla mia tomba per trarne responsi di virtù, insegnamenti di civile prudenza. Intanto fatevi qui presso me, Francesco Ferruccio; il vostro cuore è un tempio della Divinità: accostatevi, e finchè Dio soffre che di voi rimanga vedovo il cielo, vi stringa amore di questo capo diletto; a voi lo confido; lo raccomando a voi: di lui mi renderete conto nelle dimore dei giusti; egli è mio sangue: stendete la mano, ecco io vi depongo sopra la facultà che mi concesse la natura di benedirlo quando mi salutarono padre; voi non avete figliuoli.... ed egli è figlio infelice di padre infelicissimo; amatelo dopo la patria primo; ed accettando voi il sacro deposito, Nicolò Machiavelli vi scongiura che operiate in maniera che egli possa al vostro fianco salvare la patria o morire gloriosamente per lei.»
Lupo, imperturbato, aggiusta il bronzo, prende la corda infocata e di propria mano dà fuoco. Cap. II, pag. 41.
Francesco Ferruccio, rimosse le mani dal pomo della spada, toltesi le manopole di ferro, scoperta la fronte, levati gli occhi al cielo, come se volesse invocare Dio testimonio della promessa, stringe con ambe le sue la mano destra al moribondo, e quindi imponendole sul capo al giovanotto Ludovico solennemente profferisce queste parole:
«Egli morrà con me!»
E Ludovico solleva dolentissimo la faccia, guarda il Ferruccio in soave atto d'amore e torna a declinarla sulla mano del padre, rompendo il freno a pianto disperato.
Piangevano tutti.
Dopo uno spazio lungo di tempo Nicolò con languida voce riprende:
«I pensieri, gli affetti, la terra cominciano a volgermisi tenebrosi intorno alla mente: il passato si oscura, il futuro mi accieca dentro un mare di luce, sento la eternità: partite. Se in cosa alcuna meritai di voi, compiacetemi, di grazia, in questa ultima preghiera; partite: a morire basto solo. Dai letti dove si addolorano i destinati a morire, male s'innalzano con riconoscenza gli occhi al firmamento. Ornai gli umani soccorsi non possono giovarmi più in nulla: io sto nelle braccia di Dio. Voi consacraste alla patria la vita: ogni istante perduto è un tradimento... un tradimento, intendete? Or via dunque andate... partite... A voi la patria... e Ludovico..., ai posteri raccomando la fama... Addio.»
I circostanti, il voto del moribondo adempiendo, si allontanarono dalla stanza; se non che ora l'uno, ora l'altro senza mostrarglisi, gli resero gli uffici estremi, finchè, aggravandosi il male, il giorno appresso 22 giugno 1527, quando pare che la campana pianga la luce scomparsa dal nostro emisfero, spirò la sua grand'anima Nicolò Machiavelli.
Con poca accompagnatura di amici, ma confortato con molte lacrime e sincere, lasciando inestimabile