L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
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Terzo maestrato maggiore costituivano i Buonuomini; dodici di numero; istituiti nel 1321; nel qual tempo essendo la città molto travagliata dalla fazione di quelli che volevano entrare nel governo, e non provvedendo a sì fatto disordine i Priori come dovevano, furono eletti questi dodici Buonuomini, perchè assistessero i Priori, i quali d'ora in poi non potessero fare deliberazione alcuna d'importanza senza il consiglio loro: si dissero Buonuomini perchè cavati fra quelli che avevano fama, oltre la sufficienza, di grande bontà. Nella riforma del 1494, epoca della seconda cacciata dei Medici, si provvide che eglino insieme ai sedici gonfalonieri ed alla Signoria intervenissero a fare stanziamenti, creare nuove leggi ed altri ordini; nè senza la presenza loro il Consiglio Grande potesse eleggere magistrato, o far cosa altra qualunque. Incombeva loro altro ufficio, ed era la guardia della porta del Palazzo nei tempi turbolenti contro chiunque volesse sforzare i Signori. Però, durante lo spazio compreso nella nostra storia, di e notte vigilarono alla custodia della Signoria.
Dei Nove non occorre per ora parlare, i quali attendevano alla milizia del contado e del dominio fiorentino; e perduto il dominio, furono deputati sopra le fortificazioni della città.
Altrove terremo proposito degli Otto di guardia, magistrato criminale sostituito ai capitani di popolo. — Diremo adesso brevemente dei Dieci di libertà e pace.
I Dieci furono magistrato assai antico, imperciocchè se ne trovi fatta menzione nella storia delle guerre che Firenze sostenne con suo infinito pericolo contro i duchi di Milano. In pace si sopprimeva, in guerra si tornava ad eleggere. Qualche volta invece di dieci fu composto di otto, e si chiamarono di Pratica. L'amministrazione dei Dieci si estendeva oltre ogni credere; in loro stava la salute o la rovina della patria; a loro apparteneva negoziare co' principi, praticare gli accordi, promuovere le leggi rispetto alla pace o alla guerra, soldare capitani, fanterie e gente di armi; e, bisognando condurre governatore o capitano generale, a loro spettava considerare diligentemente chi per fede e valore fosse degno di tanto grado, comechè simile condotta non si tenesse per conclusa dove prima non la confermasse il consiglio degli Ottanta. Era parimenti ufficio dei Dieci apprestare le fortezze del dominio, mettervi presidii, artiglierie, polvere e di ogni maniera provvisioni. Avevano autorità di mandare commissari particolari del dominio, od anche eleggere per commissari quelli che andavano in reggimento. Gli ambasciatori e commissari generali sebbene nel consiglio degli Ottanta si creassero, nondimeno, quando andavano ad eseguire i negozi, la Signoria imponeva loro che scrivessero ai Dieci; e quanto questi comandassero, facessero: però gli ambasciatori innanzi la partita andavano per le istruzioni a quel magistrato; giunti presso i principi, a lui scrivevano tutto quello che occorreva, e i comandi che per risposta ricevevano, eseguivano. L'autorità di questo magistrato compariva in diritto eccessiva, perchè poteva muovere guerra, far pace, stringere lega con cui meglio gli pareva: nondimeno in fatto non assumeva sì grave carico, e nelle deliberazioni di momento si consigliava con la Pratica. Furono segretari dei Dieci, col titolo di Segretari della Repubblica Fiorentina, gli uomini più illustri che a mano a mano onorassero i secoli. Tanto piacque nei tempi andati ai Toscani mantenere presso i popoli stranieri fama d'ingegnosi e schivare quella di stupidi: Coluccio Salutati; Lionardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini, Cristoforo Landini esercitarono l'ufficio di segretario; più grande di tutti loro Nicolò Machiavelli, a, cui, ristorato il governo repubblicano, fu per opera degli ottimati preferito un Francesco Tarugi di Montepulciano, e questo morto di lì a breve tempo, con molto migliore consiglio elessero per segretario Donato Gianotti, reputato e dabbene, dalle opere del quale sono estratte per la massima parte le precedenti notizie[127].
Già la sala era ingombra di cittadini chiamati dal suono della campana; e andavano trattenendosi in vari ragionamenti, divisi in capannelli, liberamente discutendo le proprie opinioni, sicchè ne usciva un frastuono simile al zufolio del vento per le foreste. Quando comparve la Signoria ogni uomo si tacque e si affrettò ad occupare il posto conveniente alla dignità di ciascheduno. I magistrati si posero sulla ringhiera, il popolo per le panche, il gonfaloniere con la Signoria sopra il suo seggio.
Appena seduti e ricambiato il salutare, i tavolaccini apersero l'ultima porta della sala a mano sinistra del gonfaloniere, ed uno di loro gridò:
«I magnifici ambasciatori.»
E subito dopo furono veduti entrare Iacopo Guicciardini, Andremo Niccolini e Luigi Soderini, mesti in sembiante e in gramaglia, cosicchè a molti quella improvvisa comparsa era segno di augurio sinistro. Fattisi presso al seggio dei signori, con molta solennità gli ossequiarono, aspettando per favellare che ne fosse loro trasmesso il comando.
«Quando partiste», cominciò il gonfaloniere, «da Fiorenza, eravate quattro. Donde avviene che siete scemati? Dov'è messer Niccolò Capponi? Quale cura lo trattiene adesso?»
«Nissuna: — anzi egli adesso va sciolto da tutte, rispose Iacopo Guicciardini. — In Castelnuovo di Garfagnana spirò la sua dabbene anima, invocando la patria e con preghiere caldissime raccomandandola.»
Lorenzo Segni, che per avere condotta a moglie la ginevra, figliuola di Piero Capponi, era cognato di Niccolò, udendo l'acerba novella, forte si percosse la fronte ed esclamò:
«Ahimè! perdemmo il migliore cittadino di Fiorenza.»
Lionardo Bartolini, soprannominato il Leo (il quale era uno dei Sedici; e patteggiando per la setta degli Arrabbiati, non si scompagnava mai da Bernardo, Lorenzo, Giovambattista, Dante ed altri della famiglia Castigliona; da Battista del Bene, detto il Bogia, Giovanni degli Adimari chiamato Zocone, Giovanni Rignadori, per soprannome Sorgnone, ed altri della medesima setta), mal comportando la lode smodata ad uomo, che sempre avevano ripreso mentre viveva, rispose ad alta voce:
«Ed il peggiore magistrato...»
Lorenzo, levando la faccia e torcendo nel Bartolini gli occhi dove il subito furore aveva inaridito le lacrime della pietà, come quello che arditissimo uomo era, con grande animo soggiunse:
«A me non faceva mestieri altro esempio per convincermi