La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII. Francesco Domenico Guerrazzi

Чтение книги онлайн.

Читать онлайн книгу La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII - Francesco Domenico Guerrazzi страница 22

La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII - Francesco Domenico Guerrazzi

Скачать книгу

Arnaldo volesse in qualche parte allontanarsi. Questi, cedendo ai tempi, si riparava in Otricoli, castello dei Conti di Campania. Adriano lo voleva morto, e di vero egli non era uomo da lasciarsi vivo: di anima ardente, di maschia eloquenza; nel sembiante, e più nei costumi, severo; innamorato dell'antica libertà, che i suoi contemporanei non sapevano nè volevano conoscere; dopo avere ascoltato a Parigi le lezioni del famoso Pietro Abelardo, si dette prima in Brescia, poi in Roma, a declamare contro i costumi dei chierici, in quei tempi infelici pur troppo, e con gemito degli stessi romani Pontefici, tralignati: predicava gli ecclesiastici non dovessero possedere beni terreni, non temporale dominio; non averlo ritenuto San Piero, e San Lino, anzi proibito espressamente Gesù Cristo; le citazioni di Tito Livio mesceva con quelle dell'Evangelo; Camillo e Scipione con San Pietro e San Paolo; sacro e profano, ogni cosa a rifascio. Di questo, poco, o nulla, si curavano i popoli; ma quando, rapito alla considerazione delle cose future, profetava Arnaldo risorgerebbe dalle rovine il Campidoglio; risorgerebbero il senno e il valore romano l'augusto Senato, terrore o riverenza delle nazioni, risorgerebbe.—si sollevavano a maraviglioso concitamento e già sembrava loro vedere innalzarsi pel cielo l'aquila temuta al vittorioso suo volo: di Papa, di Cardinali, di Chiesa, non si teneva più conto; Consoli, Tribuni, e Senato, occupavano le menti di tutti. A queste cose, di per sè sole sufficienti a condannare Arnaldo, si aggiunsero alcune massime, meno che rette, sul mistero della Trinità, forse attinte dal suo maestro Abelardo, che fu nel 1110 condannato nel Concilio di Soissons ad abbruciare di propria mano il libro da lui composto intorno questa divina materia. Il Concilio lateranense secondo, tenuto sotto Innocenzio II, lo dichiarava eretico, e come scomunicato lo condannava. Arnaldo ripara a Gostanza; perseguitato da San Bernardo fugge a Zurigo, dov'ebbe per alcun tempo stanza e vita sicure.—Ma per lo esilio di Arnaldo non cessavano le turbolenze romane. Innocenzio II, dopo essersi invano adoperato a quietarle, ne moriva di affanno. Lucio II, vestito degli abiti pontificali, mentre vuole salire al Campidoglio, côlto alla tempia da un sasso cade miseramente ammazzato. Eugenio III è costretto a fuggire, e lascia alla Provvidenza prendersi cura della Chiesa, poichè vede tornare invano ogni mezzo terreno. Nel Pontificato di Eugenio fu richiamato Arnaldo a Roma, dove stette fino al 1133 sempre vegliando alla grandezza di un popolo, che parve destinato dai cieli a non essere più grande. Adriano adesso lo chiedeva a Federigo: questi, che desiderava essere coronato dal Papa, arresta il Barone presso cui riparava Arnaldo, e lo costringe a consegnargli quel male arrivato. Cinto da numerosa milizia s'incamminava Arnaldo a Roma per ricevere, come malfattore, la pena sul luogo del delitto. S'innalza il rogo, si sottopone la fiamma…. cresce…. gli avvampa le vesti…. gli abbrucia le piante…. E dove è il popolo, che Arnaldo voleva far grande?—Il fuoco gli consuma il corpo: i suoi occhi, disperati di umano soccorso, si affissano ai firmamento: il firmamento non si muove: egli è fatto cadavere…. polvere…. E dove è il popolo, che Arnaldo voleva far grande?—Si raguna la cenere; si disperde al vento: il popolo accorre, urla, schiamazza, e vuole salvarlo.—Oh! come burlevole saresti, umana razza, se tu non facessi così sovente piangere!

      Federigo, andando a Viterbo, incontra il Pontefice Adriano nei campi di Sutri. Era costume che i Regnanti Incontrando il Pontefice gli si prostrassero, gli baciassero il piede, gli tenessero la staffa, e la Ghinea per lo spazio di nove passi romani gli conducessero. Lo Svevo, sdegnando coteste cerimonie, si fa arditamente incontro ad Adriano, che lo respinge, e gli nega il bacio della pace. I Cardinali spaventati fuggono a Civita-Castellana: una aperta rottura sembrava imminente, allorchè Federigo, mosso dall'esempio di Lotario II, si dispone fare a Nepi quello che aveva ricusato a Sutri, e così pacificato col Papa s'incamminano insieme alla volta di Roma. È fama, che Federigo, nello eseguire queste cerimonie, sbagliasse staffa; la qual cosa essendogli fatta osservare da certo famigliare del Papa, rispondesse: ch'egli non aveva mai fatto lo staffiere, volendo con questo mordere la bassa nascita di Papa Adriano; come se non fosse maggior gloria di piccolo farsi potente; che nato grande mantenersi in grandezza.

      Mentre così si avvicinavano a Roma, ecco occorrere a Federigo una magnifica ambasciata del Senato e del popolo romano, che ammessa alla sua presenza così cominciava: «Gran Re, noi, di straniero che eravate, vi abbiamo sollevato all'onore di essere cittadino, e Principe nostro;» e così continuavano, fino ad esporre per patti della sua incoronazione il pagamento di cinquemila libbre di oro, e la concessione al Senato di reggersi come meglio gli piacesse. Federigo, a mala pena contenendosi, tutto infiammato nel volto rispondeva: «Roma o omai gran tempo che è convertita in nudo nome; voi mentite, se osate affermare me essere vostro Principe per elezione della vostra volontà: Carlomagno e Ottone vi hanno vinto con le armi, ed io sono vostro Sovrano per legittima possessione…. partite.»

      Giunto innanzi Roma si attendò fuori delle mura: dipoi, per consiglio del Pontefice, mandati innanzi mille cavalieri ad occupare la città leonina, e il ponte sotto il castello di Sant'Angiolo, andò a San Pietro, dove dalle mani del Papa ricevè scettro, spada, e corona, applaudente lo esercito. Compiuta la cerimonia, tornava al campo. I Romani ragunatisi al Campidoglio risolvono non soffrire tanto manifesto disprezzo; assaltano la città leonina, e quanti Tedeschi vi trovano uccidono. S'ingaggia una molto terribile battaglia davanti Sant'Angiolo. I Romani combattono francamente fino a notte; allora con la perdita di mille duecento uomini sono respinti. I Tedeschi però, non estimandosi sicuri, si ritirano a Tivoli, dove Alessandro assolve i soldati, dichiarando: non essere delitto versare il sangue dei popoli per mantenere i Principi, ma vendetta dei diritti dell'Impero. E sempre così! Federigo lascia il Pontefice a Tivoli, e volte le armi contro Spoleti, divenutagli nemica per la prigionia di Guido Guerra, e pel rifiuto di certo Fodero, la vince, la saccheggia, e la incendia. Ormai in questa impresa le cose gli andavano a seconda, e di certo gli sarebbe venuto fatto di conquistare il Regno di Napoli, dove i suoi Baroni, obbligati a seguitarlo per due soli anni, volendo tornarsene a casa, non lo avessero costretto a congedarli in Ancona. Egli poi traversata Romagna con modesta compagnia, alquanto tempo dopo teneva lor dietro. Giunto a Verona, poichè questa città godeva il privilegio di non dare il passo alle milizie imperiali, gli apprestavano un ponte su l'Adige. Il ponte fu dai Veronesi costruito con questo intendimento, che quando gli Imperiali fossero in parte passati, col gettare zattere cariche di terra nella corrente superiore del fiume, si rompesse, e così divisi, potessero agevolmente trucidarli. Ma l'inganno tornò in capo agli ingannatori; perchè i Tedeschi, duramente incalzati dalla gente del contado, passando a precipizio scamparono; gl'inseguenti rimasero rotti, ed una parte di questi, senza poterli soccorrere. stette sopra una riva, dolente spettatrice dello scempio che si faceva su l'altra dei suoi infelici compagni.

      Questa è la prima spedizione di Federigo in Italia, narrata diligentemente da Ottone Frisingen, figlio di Leopoldo di Austria. Ben altre sei, sebbene con maggiore brevità, ne verremo esponendo, tutte piene di casi scellerati. Ora l'ordine della narrazione ci porta a contare le vicende del Reame di Napoli.

      I Normanni,¹ divenuti cristiani, dopo il conquisto della Neustria grandemente si dilettarono di sante pellegrinazioni; e visitata da prima Gerusalemme, passavano in Puglia, dove adorati i santuarii del monte Gargano e del monte Cassino, se ne tornavano in patria. Nel 1016 cento di questi Normanni trapassando per Salerno, allora governato dal Duca Guaimaro III, videro con maraviglia una masnada di Saracini sbarcare di nave, mettere a contribuzione la città, e aspettando il tributo darsi a banchettare trascuratamente sul lido: molto e più stupirono poi, allorchè i Salernitani, invece di apparecchiarsi a combattere, prepararono le cose richieste: onde sentendosi punti di vergogna per loro, sortirono dalla città, si gittarono addosso ai Saracini, e, molti uccidendone, costrinsero i rimanenti alla fuga. Pensisi quali accoglienze facesse loro Guaimaro. Voleva ad ogni costo ritenerli, ma rifiutarono; promettevano che gli avrebbero mandato alcuni compagni, e riccamente regalati si congedavano. Giunti in patria, la bellezza di questo nostro suolo esaltando, gli ori e le sete ricevute in dono mostrando, e sopra ogni altra cosa facendo gustare le frutta, che seco avevano recato, invogliarono gran parte² dei concittadini loro a passare in Puglia. Di qui la conquista normanna del Regno di Napoli: vennevi primo Drengotto con poca fortuna: vennevi con migliore nel 1035 Tancredi di Altavilla coi suoi dodici figliuoli. Ponendosi ora sotto il comando di un Duca, ora sotto quello di un altro, vendendo il proprio braccio, per lo indebolimento di tutti giunsero a tale grado di potenza, che Papa Lione IX, timoroso pei suoi Stati Romani, predicò la Crociata contro di loro. Il Pontefice,

Скачать книгу