L'umorismo. Luigi Pirandello
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Il Fichte aveva voluto, in fondo, compire la dottrina kantiana del dovere: dicendo che l'universo è creato dallo spirito, dall'«Io», che è anche divinità, l'anima dell'essenza del mondo, che genera tutto ed è impersonale, che è volontà infaticabile, la quale racchiude in sè ragione, libertà, moralità; aveva voluto dimostrare il dovere dei singoli uomini di sottomettersi al volere della totalità e di tendere al culmine dell'armonia morale.
Ora, quest'«Io» del Fichte diventò l'«io» individuale, il piccolo «io» strambo del signor Federico Schlegel, che con un cannellino e un po' d'acqua saponata si mise allegramente a gonfiar bolle di sapone: vane parvenze d'universo, mondi; e a soffiarci su. E questo era il giuoco. Povero Schiller! Non poteva esser falsato in modo più indegno il suo Spieltrieb. Ma il signor Federico Schlegel prese alla lettera le parole: «der Mensch soll mit der Schöneit nur spielen, und er soll nur mit der Schöneit spielen. Denn, um es endlich auf einmal herauszusagen, der Mensch spielt nur, wo er in voller Bedeutung des Worts Mensch ist, und er ist nur da ganz Mensch, wo er spielt»,[5] e disse che per il poeta l'ironia consiste nel non fondersi mai del tutto con l'opera propria, nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza della irrealtà delle sue creazioni, nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso evocati, nel sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di sè stesso che la propria vita consacra a giocare.[6]
Intesa in questo senso l'ironia, ognun vede come a torto essa venga attribuita a certi scrittori, come ad esempio, al nostro Manzoni, che della realtà oggettiva, della verità storica si fece una vera e propria fissazione, fino a condannare il suo stesso capolavoro. Nè d'altra parte si può attribuire al Manzoni quell'altra ironia, la retorica, giacchè nessuna contradizione fittizia si trova mai in lui tra quel che dice e quel che vuole sia inteso, contradizione frutto di sdegno. Il Manzoni non si sdegna mai della realtà in contrasto col suo ideale: per compassione transige qua e là e spesso indulge, rappresentando ogni volta minutamente, in forma viva, le ragioni del suo transigere e del suo indulgere: il che, come vedremo, è proprio dell'umorismo.
La sostituzione di ironismo, ironista a umorismo, umorista non sarebbe quindi legittima. Dall'ironia, anche quando sia usata a fin di bene, non si sa disgiungere l'idea di un che di beffardo e di mordace. Ora, beffardi e mordaci possono essere anche scrittori indubbiamente umoristici, ma il loro umorismo non consisterà già in questa beffa mordace.
È pur vero però che a una parola si può per comune accordo alterare il significato. Tante parole che noi adoperiamo adesso in un senso, ne avevano un altro in antico. E se alla parola umorismo, come abbiamo veduto, s'è già veramente alterato il senso, non ci sarebbe in fondo nulla di male se — per determinare, per significare senza equivoco la cosa — venisse adoperata un'altra parola.
II. Questioni preliminari
Prima di entrare a parlar dell'essenza, dei caratteri e della materia dell'umorismo, dobbiamo sgomberarci il terreno di tre altre questioni preliminari: 1) se l'umorismo sia fenomeno letterario esclusivamente moderno; 2) se esotico per noi; 3) se specialmente nordico.
Queste tre questioni si ricollegano strettamente con quella più vasta e complessa della differenza dell'arte moderna dall'arte antica, lungamente agitata durante la lotta tra classicismo e romanticismo considerato dalle genti anglo-germaniche come una rivalsa contro il classicismo delle genti latine.
Vedremo in fatti ripresi nelle varie dispute su l'umorismo tutti gli argomenti della critica romantica, a cominciare da quelli de lo Schiller, il quale, col saggio famoso Ueber naïve und sentimentalische Dichtung, fu, a dire del Goethe[7] il fondatore di tutta l'estetica moderna.
Questi argomenti sono ben noti: il subiettivismo del poeta speculativo-sentimentale, rappresentante dell'arte moderna, in contrapposto con l'obbiettivismo del poeta istintivo o ingenuo, rappresentante dell'arte antica; il contrasto tra l'ideale e il reale; la serenità marmorea, l'equilibrio dignitoso, la bellezza esteriore dell'arte antica contro l'esaltazione dei sentimenti, il vago, l'infinito, l'indeterminato delle aspirazioni, le melanconie, la nostalgia, la bellezza interiore dell'arte moderna; e da un canto le bassure del verismo della poesia ingenua, e dall'altro le nebbie dell'astrazione e il capogiro intellettuale della poesia sentimentale;[8] l'azione del cristianesimo; l'elemento filosofico; l'incoerenza dell'arte moderna opposta all'armonia della poesia greca; le particolarità singole di fronte alle tipificazioni classiche; la ragione che s'interessa del valore filosofico del contenuto più che della vaghezza della forma esteriore; il sentimento profondo di un'interna disunione, di una doppia natura dell'uomo moderno, ecc. ecc.
Per darne qualche prova, citeremo ciò che scriveva il Nencioni in quel suo studio su L'Umorismo e gli umoristi, di cui abbiamo già fatto parola: «L'antichità, nel suo felice equilibrio dei sensi e dei sentimenti, guardò con calma statuaria anche nelle tragiche profondità del destino. L'anima umana era sana e giovine allora, nè il cuore e la intelligenza erano stati tormentati da trenta secoli di precetti e di sistemi, di dolori e di dubbi. Nessuna penosa dottrina, nessuna crisi interiore aveva alterato la serena armonia della vita e del temperamento umano. Ma il tempo e il cristianesimo hanno insegnato all'uomo moderno a contemplare l'infinito, a paragonarlo con l'effimero e doloroso soffio della vita presente. Il nostro organismo è continuamente eccitato e sovreccitato; e secolari dolori hanno umanizzato il nostro cuore. Noi guardiamo nell'anima umana, e nella natura con una simpatia più penetrante, e vi troviamo delle arcane relazioni e un'intima poesia ignote all'antichità... Il riso d'artista e la comica fantasia di Aristofane, alcuni dialoghi di Luciano, sono eccezioni. L'antichità, non ebbe, nè poteva avere, letteratura umoristica... Si direbbe che questa sia la caratteristica delle letterature anglo-germaniche. Il cielo crepuscolare e l'umido suolo del Nord sembrano esser più acconci a nutrire la delicata e strana pianta dell'umorismo.»
Concedeva però il Nencioni che «anche sotto il cielo azzurro e nella vita facile delle razze latine» l'umorismo «ha talora fiorito, e due o tre volte in modo unico, meraviglioso». E parlava infatti del Rabelais e del Cervantes, e anche dell'umorismo «realista, e vivente» di Carlo Bini, e diceva il Don Abbondio del Manzoni una creazione umoristica di prim'ordine.
Più preciso nella negazione fu Giorgio Arcoleo[9] il quale, pur ammettendo che la nota dell'umorismo, speciale della letteratura moderna, non manchi di legami col mondo antico, e pur citando quell'insegnamento di Socrate che dice: «Una è l'origine dell'allegria e della tristezza: nei contrapposti un'idea non si conosce che per la sua contraria: della stessa materia si forma il socco e il coturno», soggiungeva: «Questo lo intelletto greco pensava: ma l'Arte non potea esprimerlo: la percezione dei contrasti rimaneva nel campo astratto, perchè diversa era la vita. La Teogonia avvolgeva l'anima nel mito; l'Epopea i fatti umani nella leggenda; la Politica le forze individuali nella suprema legge dello Stato. L'Antichità costrinse serenamente le forme nell'armonia del finito: vide il Ciclope o lo Gnomo, le Grazie o le Parche. Come la vita avea liberi o servi, onnipotenti o impotenti, così la scienza ebbe sorrisi o pianto: Eraclito o Democrito; e la letteratura, ebbe tragedie o commedie. Tutt'al più il contrasto dalla sfera dell'intelletto passò nell'altra della immaginazione, si tramutò in fantasma, e allora Aristofane fece la satira dei sofisti, Luciano degli Dei. Ma se il Paganesimo si era obliato nella magnificenza delle forme e della natura, il Medio Evo si tormentò nei dubbii e nelle angosce dello spirito. Fu triste, ebbe sogni agitati da spettri: la potenza baronale finiva spesso nei conventi, la bellezza nei chiostri. La corruttela romana non seduceva neppure come ricordo: la dissoluzione del grande Impero aveva inoculato negli animi l'idea dell'impotenza. A rovescio del mondo antico: questo rimpiccolì nelle forme plastiche le energie soprannaturali; il Medio Evo le allargò nell'infinito: e, compreso dallo spazio