La vendetta paterna. Francesco Domenico Guerrazzi
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Quattro terzettate sparate a un punto stesso, che parvero una sola, fecero quattro finestre nel petto alla povera donna, che gridò Ge, e non ebbe balìa di compire Gesù, e cadde giù bocconi morta sul colpo.
I padroni giovani com'erano venuti se ne andarono lenti, muti, senza pur degnare di uno sguardo il cadavere: scesi nel cortile inforcarono i cavalli, ed uscirono di Roma. Per la bella Siciliana non ci fu mestieri nè medico, nè prete. La copersi con uno arazzo; dalla parte del capo le posi il crocifisso grande di argento fitto sur un candelabro, che il marchese don Flaminio teneva nella camera da letto; da piedi le accomodai una lucerna accesa; le dissi presto presto un po' di de profundis, e poi mandai al Vaticano pel Marchese onde venisse subito a casa per affare, che non pativa dilazione; — e feci male; perchè a quello che era accaduto, o un giorno o un secolo oggimai non guastava più nulla.
§ III. La Maledizione.
Il marchese don Flaminio non si fece lunga pezza aspettare: improvvido e spensierato, il cuore non gli presagiva nulla di sinistro: saliva le scale canterellando, senza porre mente ai volti lugubri e al favellìo sommesso dei servi: non lo percosse la frequenza straordinaria della gente accorsa al rumore delle pistolettate, e nemmeno alla inchiesta dei curiosi: «dov'è successo lo ammazzamento?» Tanto lo teneva assorto quel suo matto amore!
Quando entrò in sala, e vide il sangue prima, poi il cadavere in modo così disonesto fracassato, come colto da fulmine stramazzò. — Il medico accorso in fretta gli allentò la vena, gli applicò le ventose: e adoperandovi intorno ogni sforzo dell'arte, con infiniti argomenti gli riusci a farlo rinvenire; ma colpito il povero vecchio dal male di gocciola, ne rimase come morto: anzi si può dire morto addirittura, tranne il capo, rimasto mezzo vivo; imperciocchè non riuscisse, anche balbettando, a farsi capire: cibo e bevanda ricusava; mai di piangere rifinava; due rivi perenni gli scendevano giù per le gote, ed immollavano le lenzuola e i pannilini che ci soprammettevamo. Come quel cristiano potesse cacciar fuori tanta acqua dal capo, per me non sapeva capire davvero. Voi intendete, che andando avanti di cotesto passo poco cammino si poteva fornire: e fu così; difatti il medico sul far del giorno gli tastò il polso, lo guardò in faccia, e voltato ai parenti susurrò: «andate pel prete.»
E il prete venne, che fu monsignor Romei vescovo di santa Sabina, il quale remossi tutti gli ostacoli lo confessò. O come fec'egli a confessarlo? direte voi, e questo dissi ancora io perchè della lingua non si poteva valere, e nelle altre membra era impedito; e pure monsignor vescovo dichiarò averlo inteso ottimamente punto per punto, e così com'ei disse si ha da credere che fosse; imperciocchè la virtù di Dio per operare miracoli sia onnipotente. Sempre più poi aggravandosi il male lo munirono dell'eucarestia, l'unsero con l'olio santo; breve, lo provvidero del viatico per imprendere il gran viaggio. In quel punto monsignor vescovo si allontanò un momento per confortarsi. A dire il vero suonavano allora le ventuna, e monsignore aveva pranzato a mezzogiorno; ma la fatica sofferta, e forse anche, chi sa, la vista dei patimenti dello agonizzante gli avranno messo appetito: a fin di conto non lo abbandonava solo; anzi lo lasciava in buona compagnia: stola su i piedi, e Cristo al capezzale.
Noi altri servi stavamo intorno al letto pensando che di ora in ora passasse, quando il moribondo mandò fuori dalla gola un suono inarticolato dal quale intendemmo, si può dire a caso, ch'egli prima di morire desiderava vedere il suo figliuolo Pompeo. Andai pel putto, e lo collocai tra suo padre e il crocifisso di argento: il povero figliuolo si struggeva in lacrime; e veramente egli era un caro garzone come i suoi fratelli, eccetto quel negozio della matrigna, che non vo' negare un tantinello abbrivato. Il vecchio cessò dal pianto alla vista di don Pompeo: con occhi infiammati guardava prima fisso fisso il putto, poi il Cristo: stringeva i labbri, gonfiava le gote: le vene ingrossate e di colore di piombo stavano a un pelo per iscoppiargli su per le tempie e nella gola: si conosceva espresso com'egli si adoperasse a raccogliere tutti i suoi spiriti vitali in uno sforzo supremo, e, come piacque a Dio, secondochè desiderava gli riuscì; avvegnachè gli venisse fatto di sciogliere la lingua, e pronunziare distinte le seguenti parole[3]:
« — Signore, tu hai detto: chi di coltello ammazza, di coltello conviene che muoia. Io nel tuo santo nome maledico gli scellerati, che uccisero di mala morte quella povera creatura senza pietà per l'anima sua, e me loro padre precipitarono violentemente dentro il sepolcro. Assenti col tuo volere alla mia maledizione, e fa che se ne vedano anche in questa vita i segni espressi per terrore dei malvagi, e per conforto dei buoni. Esalta poi questo innocente, benedicilo in ogni pensiero del suo cuore, in ogni opera delle sue mani; e come solo si astenne da contaminare di sangue la dimora dei suoi nobili maggiori, così rimanga di sua schiatta solo ad abitarla, ed a lasciarla in retaggio ai figli dei suoi figli.» — E forse intendeva favellare di più; ma la lingua ingrossata gli negò lo ufficio, ed ei si tacque: — nella notte passò.
§ IV. Don Marcantonio Massimi.
Ora voi altri, se già non lo sapete, avete da sapere come in Roma s'incontrino tre maniere di giustizia: una per noi cavalieri della foresta e gentiluomini delle strade maestre, ed è di canapa bianca rattorta a meraviglia, e bella: la seconda pei signori della città che possiedono più lignaggio che ducati, ed è di ferro forbito e tagliente, da mettere la voglia in corpo di provare una seconda volta a cui l'assaggiò la prima: la terza spetta ai signori che hanno più scudi che nobiltà; e questa è di cera, avvegnadio prenda il marchio dalla moneta che vi s'impronta sopra. Ora i Massimi possedevano ricchezze stragrandi e parentado potentissimo, in ispecie li signori Principi Colonna, i quali tanto e tanto s'industriarono presso Cardinali e Auditori di ruota, che ottennero, quantunque con difficoltà assai, la liberazione del bando pei signori di santa Prassede.
Tornarono i padroni a Roma — notte tempo: — taciti, guardinghi rientrarono nel palazzo dei loro maggiori, non altrimenti che se fossero ladri venuti per rubare. Salite le scale si avviarono alla stanza mortuaria del marchese Flaminio; ma per arrivarvi fu loro mestieri attraversare la sala dove avevano ammazzata la bella Siciliana. Appena misero i piè sopra la soglia, invece di passare addirittura per lo mezzo, furono visti studiarsi a rasentare la parete; e don Marcantonio in ispecie, per costume di persona oltre ogni credere lindissimo, passò in punta di piedi come si usa da cui vada per guazzo, per amore della calzatura. Arrivati che furono nella stanza del defunto genitore s'inginocchiarono tutti intorno al letto in sembianza di pregare, ed appoggiarono il capo alle materasse: di subito però, come se avessero toccato fuoco lavorato, si levarono d'impeto e partirono[4]. Don Marcantonio quando tornò a passare per la sala mi chiamò a sè con un cenno del capo; e mostratomi col dito il luogo dov'era caduta la matrigna, mi disse sotto voce:
«Mi sembra, che in tanto tempo avreste pur dovuto trovare un momento per tòrre via cotesta macchia.»
«Macchia! risposi io, e di che?»
Tutti allora mi furono addosso, susurrandomi nel medesimo punto all'orecchio:
«Di sangue... di sangue...»
Ond'io, inchinatomi rispettosamente, soggiunsi loro:
«In verità di Dio, padroni miei riveriti, si assicurino che con le mie proprie mani ho lavato sette volte il pavimento.»
Allora si strinsero nelle spalle, e senza arrogere motto si partirono: io mi rimasi lì attonito, pensando che vagellassero.
Breve però fu il convivere loro in famiglia: uno non poteva sopportare la vista dell'altro: ingiurie aperte non