Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi страница 26
E se fosse, come i nostri avversari si ripromettono ed io no, certamente noi avremmo a correre le fortune della Francia, con questa avvertenza però, che le fossero d'accordo con le nostre; ed anco se comparissero fino ad un certo punto diverse, non però contrarie; inoltre si avrebbe a porre mente, che le fortune le quali noi possiamo correre con la Francia approdassero alla Francia, ovvero alla Francia ad un punto e al suo imperatore, imperciocchè se favorendo gl'interessi di questo non giovassero alla Francia, e peggio se gli nocessero allora adagio ai ma' passi, che per cosa al mondo io non vorrei movere orma, la quale forse lo imperatore mi ponesse a credito, e certo poi la Francia mi appuntasse a debito. Mutabili le dinastie nel mondo; mutabilissime in Francia, la quale non ardua a pigliare, è una maladizione tenere: breve, io vorrei che l'aquila non mi portasse seco nè nei suoi voli, nè nella sua caduta, e cessando il principe mi rimanesse lo stato: concetto, che senza alterazione di amicizia non solo apparisce lecito, ma è doveroso professare ai reggitori di popoli. Rammentiamoci sempre di questo, che Cristo, il quale o Dio infatti, od uomo prossimo alla divinità, non disse parola mai che non palesasse tutta sapienza e sommo amore, bandì inesorabilmente «chi di coltello ammazza, di coltello conviene che muoia.» E lo impero è surto dal sangue.
Adesso poi supponiamo il caso certo meno grato, ma giusta la opinione mia più verosimile assai, che i Francesi non intendano sgomberare Roma, che avanza a noi? Pigliarcela. Oppongono pieno di pericolo il partito: e veramente è così: dubitano possiamo precipitare nel mandarlo ad effetto: certo si corre rischio di rompercisi il collo. O dunque mal consiglio è il tuo? No, bensì l'unico prudente, e lascio da parte se animoso; unico prudente perchè a tale siamo ridotti noi, che altra elezione non ci resta, che tra la morte certa, e la morte probabile; rimanendo fermi noi fuggiamo l'acqua sotto le grondaie. Agevole riesce molto negare il danno, ma impedire che sia gli è un'altro negozio: ora da ogni lato compaiono segni di disfacimento; hanno creduto, e credono ricucire con filo di ferro, e precipitano nella buca dentro cui altri tracollò a capo fitto: che se pei reami antichi trovarono buona la sentenza che non hanno più ragione di vivere quando si appoggiano unicamente su la forza, verissima la sperimentiamo negli stati nuovi sorti dalla benevolenza del popolo.
Ci domandano il modo di pigliarla, e noi rispondiamo: «che giova dirvelo? Tanto voi non ardireste praticarlo: voi affermaste avere diritto su Roma, e poi allibiste rifiniti dalla paura; gli è fiato perso a favellare con voi; noi vi proveremmo uguali a Bertoldo, il quale non trovava albero che gli garbasse per esserci impiccato. Ve ne suggerimmo uno senz'armi e voi lo dileggiaste, e faceste dileggiare come delirio di cervello che abbia dato nei gerundi; ve ne mostrammo un'altro con armi, e voi lo malediste ribellione, e levando insegna contro insegna, crisma contro crisma, perfidi![1] spasimanti e urlanti di paura lo faceste affogare nel sangue; eravi un dì tale tra voi di voi non tristo meno, ma più sagace, che avrebbe acceso i moccoli a piè dei Santi per la mossa del prode uomo Giuseppe Garibaldi, e con tutte le sue forze lo avrebbe fatto sloggiare da Sicilia; traversato, che costui avesse lo stretto di Messina egli, senza posa, addosso; dov'ei levava il piede egli metteva l'orma, così a Napoli, e così al Volturno; relitte le terre sicule non lo lasciava per questo, all'opposto sempre dietro talchè le spalle di lui sentissero l'alito focoso delle sue nari: l'uno con molta mano di gregari fuggendo, e l'altro con molto esercito regolare inseguendo giunti su la piazza del Vaticano, arrestati, e arrestatori sarebbero entrati di amore, e d'accordo in San Pietro a cantare il Te Deum più sincero, che Dio ascolti da moltissimi anni a questa parte.» Questo avrebbe forse fatto il Cavour inetto a operare e ad operare grandemente, pure capace ad approfittarsi dell'operato altrui; adesso i suoi successori, il Ferrari ha detto si rassomigliano ai generali di Alessandro; nè manco per ombra! La politica che ora prevale è quella del cane dell'ortolano, il quale non mangia cavoli e non li lascia mangiare.
[1] «……..in Francia voi «Correre, insegna contro insegna, e crisma «Contro crisma levar, perfidi!» Adelchi
Provvidenza o Fortuna che sia voglionsi ammirare i casi portentosi pei quali l'uomo, che pure si stima avvisato, se altra volta pensò, che la volontà, e la forza di un popolo commesse ad un braccio di ferro potessero meglio ricondurre la Italia all'antica grandezza, ora bisogna, che si ricreda e confessi che Libertà interna ed esterna scaturiscano scintille di spada percossa di un colpo solo su la pietra. Ci fu un'ora in cui se fosse apparso un'uomo robusto, che nei plebei diletti non imbestiasse sua vita, in cui un'anima grandemente cupida, non ragnatelo a cui paresse disgradare Cesare od Alessandro chiappando una mosca, e portarsela a risucchiare dentro al buco; un'anima ferocemente disdegnosa, la quale avesse voluto agguantare Roma come si agguantano le corone, non già come s'intascano l'elemosine, e posto la mano dentro ai capelli d'Italia con alto grido detto a noi: «tacete, e combattete; finchè vive in questa terra uno schiavo allo straniero non vi è permesso favellare di Libertà.» Noi lo avremmo seguitato: noi gli avremmo messo in mano la rivoluzione come il fulmine in quella del Saturnio.—Forse era a temersi Cesare, ma ben venuto Cesare a patto che se ei ripugnava cibarci del pane della Libertà ci saziasse almeno di quello più duro della Gloria; non permettesse, che la nostra vista restasse contristata dalla gente vile che sta nell'atrio del tempio della Libertà, pubblicana perpetua da Cristo, e prima di Cristo per vendere e per barattare.—Quando gli Ebrei, vinte le colpe loro dalla moltitudine delle nostre, diventeranno nostri signori e padroni, questa gente vile li surrogherà nel ghetto a venderci ciarpe, e panni vecchi; delle loro anime non si gioverà nè manco il Demonio: non varranno il carbone che le abbruci.—
Ora poi il pericolo della prevalenza del solo è logorata; il giorno passò e non ritornerà più: invece dell'uno, che afferra le moltitudini, le moltitudini afferreranno l'uno, però che i popoli, levando un dito sollevino, e abbassino i loro capitani; i capitani senza soldati compaiono personaggi da commedia. Meglio così: sia dunque che la Francia ci conceda Roma in acconto di soldo per le armi italiano prestate alle sue guerre, o dobbiamo acquistarci Roma non consenziente, ed anco contrastante la Francia, ormai senza offerta spontanea di pecunia e di sangue per la parte dei cittadini italiani non si può.—
Voglia Dio, che quando di questo si persuaderà la gente non sia troppo tardi. Ad ogni modo con altro, che con parole il pro' cittadino è uso affermare la Unità della Italia.—
Noi abbiamo bisogno di Roma per salvarci dal flagello della guerra civile. Badate a questo sconsigliati e provvedete se non per la Patria, per voi.
Se tacere giovasse sarebbe ufficio di pessimo cittadino, anzi pure di nemico aperto favellare, e se le parole si reputassero vane dimostrerebbe il dirle animo tristo; parmi debito palesare il mio concetto però che spero le mie parole possano essere seme di bene, e capaci a partorire rimedi valevoli.—Affermano i principi di Piemonte avere sempre indirizzato i concetti loro ad unire in un solo corpo la Italia; e parmi piaggieria espressa, imperciocchè lasciando dei tempi remoti certo le donne, che durante la minorità dei figliuoli reggevano le provincie piemontesi ai tempi della discesa di Carlo VIII, e furono la duchessa di Savoia, e la marchesa del Monferrato, non pensavano a questo quando sovvennero di moneta e di gioie cotesto re ond'ei potesse mandare a ruba la Italia da un capo all'altro con opere piuttosto da predatore, che arraffa, che da principe, che conquista; nè a me sembra dovere aggiungere verbo per chiarire la inanità del vanto; che se per supposto si avesse anco a concedere dovremmo confessare, che i disegni dei principi del Piemonte per lo meno non differissero da quelli che concepirono eziandio le repubbliche dei tempi medi, e lo tentarono, e fu acquistare quanto più potessero signoria di popoli soggetti; così Venezia, e Firenze esercitarono dominio sopra le terre vinte, o comprate; nè i popoli proffertisi accettarono compagni, bensì vassalli; le storie ricordano, che solo dopo molto secolo la repubblica di Venezia accolse tra i senatori alcuni pochi Candiotti in rimerito della mirabile resistenza contro l'armata turca; fra i quali un Manin, donde discese quel Manin, che fu ultimo doge della repubblica tradita dal primo Bonaparte.
Non vuolsi mica fiore d'ingegno per capire