Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

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Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi

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uomini positivi, e diremo così aritmetici sono i piemontesi, schifano la immaginazione per sè, l'altrui gli affatica; anco se taluno di loro n'è tocco le sue fantasie pigliano aspetto di forma geometrica, onde per ragionare l'assurdo, e mettere il disordine in architettura valgono oro. Anco gli edifizi offrono argomento a indovinare la disposizione del popolo, che li fabbricò, e quivi contempli per lungo ordine case uguali in tutto l'una coll'altra, sicchè da prima tu resti ammirato, poi ti uggisce, per ultimo la fastidievole regolarità ti ammazza: uomini, e mattoni ti appaiono formati proprio sopra un medesimo modello; costà da secoli passarono, e ripassarono lo spianatoio: chi mai fu il mal cristiano? Tutti; nè si potrebbe senza ingiustizia asserire che i principi amassero livellare più che i popoli amassero essere livellati. Il valoroso Ferrari ragionando del Bottero, e della sua Ragione di Stato, lo fece proprio toccare con mani, ed allorchè qualche principe si dispose non mica a dare libertà sibbene a smettere qualche prerogativa, ch'era vergogna di secolo civile, ebbe a toccarne dai suoi fedeli sudditi e servitori una ramazzina delle buone. Sequela altresì di questa quadratura di spirito parmi la tardità a mutare, e la perseveranza nel passo che hanno pure, se non a maltalento, con molta renitenza mutato. Chi dei popoli subalpini legge per avventura queste pagine non s'inalberi, dacchè mi garbi procedere alla rovescia di quello, che costumano i detrattori, i quali incominciano a levarti a cielo per flagellarti poi di santa ragione; dirò più tardi dei molti, e nobilissimi pregi tuoi; adesso ascolta e non battere, perchè se batti ti baratteremo lo scudo in cinque lire.—Pertanto il Piemontese ama piuttosto ordinare, che discutere; sentenziare dommatico, che dimostrare; favellare succinto (tranne gli avvocati, che formano classe a parte e parabolani li proviamo in tutto il mondo; il mestiere mangia l'uomo) e tuttavia male rispondente al concetto, nè terso, molto meno elegante, perchè dallo idioma sincero della Italia un dì appartati, e nè oggi vogliosi cultori di quello, come coloro, che intendono e vogliono impiombarci nella lingua il parlare proprio. Certo possiedono scrittori insigni, ma si conosce di botto, che appresero l'arte su i libri, onde il Botta adopera un tal quale stile, che ti sembra gittato sopra il modello del Casa o di qualche altro autore del secolo decimosesto; e il Gioberti ti turbina in mezzo una lavina di parole, elette se vuoi, ma così rimescolate, che è spasimo leggerle: dei minori taccio, i quali nè troppo studiosi dei classici, nè tutti in balia ai modi del dialetto, a leggerli ti alleghiscono i denti[1].

      [1] Un dì la più parte dei parlatori piemontesi non si attentavano movere un braccio per accompagnare col gesto la orazione, uno solo ardiva con la mano diritta descrivere un quadrante dall'umbelico fino al fianco destro; ed un'altro audacissimo con ambe le mani segnava intorno al suo corpo un mezzo circolo; chi fosse questo Capaneo della tribuna piemontese non importa, ch'io dica, che ognuno capisce accennare io al Brofferio, cui Torino, in mercede del lungo apostolato di Libertà, lascia negletto, o si compiace vedere esposto al dileggio di schifosi profanatori di arti, che ormai, loro mercè, non si chiameranno più belle. Orologi in casse ti apparivano cotesti Oratori con la facondia a tic tac, e il gesto a lancetta che segna mezza notte passata. Io lessi già da certo scrittore francese paragonata la Camera subalpina ad un'assemblea di notari, e ciò per onoranza: se costui biasimava che avrebbe detto di peggio? Ma io spero, e non invano, che a questa ora il popolo di Piemonte abbia compreso che la Italia non è morto di cui i notari devano leggere il testamento, nè la Libertà uno incendio per mandare deputati acquaioli a spegnerla in furia.

      Se pertanto presumono i Piemontesi impiombarci su la lingua la favella loro, tu pensa se tutte le altre o usanze, o pratiche, od ordini dove qualche volta gli assiste la ragione.—A questa superbia dette nome scientifico il Gioberti cavando fuori il vocabolo greco di egemonìa il quale denota sempre potestà soprastante così regia come popolesca, ed egemonìa chiamarono gli antichi la Luna effigiata con due pallide fiaccole nelle mani a rischiarare col lume accattato il sentiero ai sorvenienti. Il Gioberti col nome greco insomma volle farci palese, che i suoi conterranei possedevano diritto, abilità, ed anco dovere di plasticarci a similitudine loro, cacciarci quanti siamo Italiani dentro la forma dove fabbricano i mattoni a Torino; ed esemplificando contemplava nel Piemonte la Macedonia italica, e nelle terre nostre il Peloponneso, l'Attica, la scaduta Lacedemonia, e la Beozia d'Italia; costà sorgevano Filippo, e Alessandro, quì da noi retori, e artisti ornamento alla magnanima rudezza.—Cotesto ingegno tumultuario che chiappava le cose a volo, e di cento aspetti, che presentano, si fermava sopra quel solo, che porgeva rincalzo alla sua scapestrata immaginazione, non comprese come la egemonìa macedone si traducesse in tirannide, in guerre interminate e senza costrutto, in morte della libertà interna, in guerre civili, e per ultimo in servitù straniera.

      Ma nel Gioberti più che in altri si palesò il tipo curioso di vestire con sembianze di ragione lo assurdo; mirabili i conati di lui per sottoporre le astruserie metafisiche a formule scientifiche, anzi a cifre arabiche, o a forme geometriche; miscela continua, e indigesta di astrattezze e di pratica; stellino[1] abbarbagliante di giudizi veri, e di falsi, di guizzi d'ingegno sublime, e di grullerie; breve, uomo che avrebbe provveduto meglio alla sua fama, o avvantaggiata la Patria se sortiva meno da natura o avventatezza, o fantasia, o le avesse sapute temperare di più.

      [1] Stellino chiama il popolo, quel tremolare scintillando che fa l'acqua percossa dai raggi del sole: parola efficace parmi, ed io l'adopero.

      Così battezzati egèmoni della Italia dal metafisico Gioberti (il quale per arroto voleva mettere nella egemonìa come socio d'industria anco il Papa), vestiti da domenica con un nome greco sempre più i Piemontesi sprofondarono nella prosunzione nella quale stavano fitti fino alla gola per disciplina di armi poche ed inferme, pure le uniche che potessimo reputare italiane, per topografia la quale li persuase che il nemico tremasse la loro virtù, mentre gli rispettava a cagione della positura, per l'esito fortunato della testardaggine messa in opera sopra popoli ridotti nella loro potestà, in fine per piaggerìa di tali che gli adulavano per dispetto di non avere livrea dai propri padroni, e per altre cause, che non importa andare tanto sottilmente investigando.—

      Ora la egemonia si esercita, se non m'inganno, o per violenza, o per civiltà, o per violenza e per civiltà congiunte insieme. La violenza non partoriva mai la egemonia nel modo che la intendeva il Gioberti, bensì o l'annientamento del popolo subietto, o il rancore, che matura nel suo segreto la vendetta; nè la violenza egemonica approda meglio anco congiunta con la civiltà; di che pigliate esempio solenne da Roma, la quale, se ne eccettui la Grecia, poteva vantarsi civile sopra i popoli superati da lei; anco Napoleone I disse suo recondito disegno quello di passeggiare la civiltà armata pel mondo, e forse fu vero, non già perchè costui se lo proponesse, o ci pensasse, ma sì perchè l'uomo anco senza saperlo diventa arnese in mano alla forza arcana che affatica il secolo. I barbari si successero come in pellegrinaggio a Roma per pagare il debito di cotesta romana egemonia; la guerra di Spagna, i popoli, che per odio della tirannide tracotante si strinsero ai tiranni umiliati, i cosacchi del Don due volte in Parigi ad abbeverare i cavalli nella Senna saldarono la egemonia francese.—

      I Piemontesi invece sostengono avere provato il metodo loro nella Liguria, e nella Sardegna con utilità manifesta dello stato.—Qui si considera prima di tutto come siffatta sentenza risponda a capello allo aneddoto delle anguille scorticate vive esposto un dì dal Windam nel Parlamento inglese[1], poichè quello, che riesce praticare col boccone il quale ti possa capire dentro la bocca, bisogna mettere da parte col boccone che sia capace ingolarti; e nè anco la Liguria, e la Sardegna potè a fine di conto masticarsi il Piemonte vivendo in cotesti paesi odio profondissimo contro di lui, un dì frenato dalla impotenza per via delle condizioni politiche di Europa, oggi temperato dalla necessità di costituirci in popolo grande e potente.—Alle teste gagliarde del Piemonte sembra adesso sia accaduto quello che avvenne al cavaliere, il quale avendo messo il piè nella staffa nell'atto di pigliare lo abbrivo invocò lo aiuto di Santo Antonio, e con tanto impeto il fece che innanzi di potere levare la gamba per inforcare l'arcione cascò giù capofitto dall'altra parte; per la quale cosa si doleva col santo, che troppa grazia gli avesse conceduta. Troppa Italia da masticare di punto in bianco alle mandibole subalpine: affermano taluni avere udito gentiluomini piemontesi impazientirsi dell'annessione delle provincie meridionali d'Italia come d'impiccio; e questo ho udito ancora io, e congratularsi con la fortuna, e con loro, che

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