Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

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Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi

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scavi di Pompei può riscontrarsi agevolmente; per la qual cosa io pensava: «cave Cavour! uomo avvisato è mezzo salvato!» Ammesso nello studio, intantochè il Conte terminava scrivere non so quale lettera, inventariai l'uomo; egli vestiva un gabbano da camera sudicio, e mi parve anco lacero, con uno straccio al collo, e in capo una papalina logori entrambi e laidi, stavasene accoccolato su di una tavoluccia dove scriveva in furia con molto disagio; avanti questa tavola ne vidi un'altra più grande dove notai una tazza di argento dono non mi ricordo di quale Municipio, o Consorteria. La stanza parata di carta con alquanti specchi nè più nè meno di qualunque sala di moderna osteria: non libri, non quadri, non arnesi che svelassero gusti eleganti od amore di arte. Lo studio rispondeva sul cortile, e dirimpetto alle sue finestre, levati gli occhi, vidi pendere giù dalle finestre del secondo piano pezze e fasce da bambini, onde la memoria corse ai due scolari brilli di cui racconta Heine nel Reisbilder quando aprirono l'armadio dell'oste e vi avendo trovato attaccato un paio di calzoni di pelle gialla di daino usati da lui quando faceva il postiglione, li presero per la luna, e volsero a loro una invocazione sul gusto dell'Ossian.—E questi, dissi fra me, è l'uomo, che ha da comprendere la Italia? Sarà! e mi strinsi nelle spalle; proprio come esclamai: sarà! e mi strinsi nelle spalle quando additandomi i Turcòs mi affermarono essere venuti in Italia a darci la Libertà:—Sarà! soggiunsi poi, ma se io fossi nei piedi della Libertà mi verrebbe la pelle di oca al solo vederli. Intesi dire altresì, che nella sua camera ei tenesse appeso il ritratto del Boggio; ond'io esclamai: mamma mia! il ritratto del Boggio sarebbe mai la Madonna della Seggiola del Conte di Cavour?—Non già, mi risposero, ma il signor Conte guardando la figura del Boggio, così a digiuno, si mette a ridere e ciò gli dà qualche minuto di buono umore.—Che il Conte di Cavour possedesse ingegno di certo non nego; impugno avesse capacità di Ministro italico; e dove pure in lui non difettasse la capacità a lungo andare non avrebbe approdato, perchè egli non chiamò mai le Grazie a spruzzarlo con la loro acqua lustrale. Il bello e il buono nella morale compongono una medesima cosa, e chi non ha senso di arte non può intendere la Italia.

      E Botta visse esule da casa sua, e Gioberti altresì, il quale diverso dalla indole piemontese, pare favilla balestrata a Torino dalla eruzione del Vesuvio; e non sarebbe maraviglia, però che si legga, che quando prima ruppe il monte pauroso la lava andò a cascare fino in Alessandria. Se in arti, in iscienze, ed in lettere noi non possiamo insegnare niente ai piemontesi non ci si apponga ad jattanza se affermiamo nè manco noi altri italiani avere nulla da apprendere tra loro[1]. Per amministrazione si governano peggio della lombarda, e questo ho toccato con mano; quanto a legge per amore di unità incaponivano a volerci a parte nella beatitudine della corda, con errato consiglio non meno che con mente iniqua; imperciocchè se la morte abolita efficacemente è segno di buona civiltà acquistata, perchè dobbiamo noi altri toscani stornare alla barbarie, e non voi piemontesi allungare il passo per agguantarci sulla via della civiltà? Ma tutto questo suona prosuntuosa insipienza di curiali; di vero se per sopprimere la pena di morte si desidera stato più perfetto di civiltà, o con qual giudizio v'incocciate a mantenere questa pena, la quale tra le barbare è barbarissima, e tra le inique scellerata delle instituzioni umane? Per leggi civili portava il vanto Napoli; le industrie agricole migliori in Toscana che in Piemonte; nelle urbane Piemonte supera, ma contaci la Liguria, che parte di Piemonte fu per violenza, non però per indole, nè per volontà. Avanzano le armi.

      [1] L'antica uggia non può fare a meno, che abbia partorito pessimi effetti difficili a vincersi: le nebbie del passato caligano sempre intorno al Piemonte, e se tu riscontri la temperie di cotesto paese sul termometro della Ragione di Stato del Bottero, tu trovi che l'aere non è per anco sereno di civiltà. Carlo Botta, tenerissimo del Piemonte sua patria, ci fa sapere come la università di Torino non fruttasse i buoni effetti che uomo se ne riprometteva in grazia della strettezza del governo, e dell'apparato militare. Il Denina, citato dal Botta, racconta come i letterati venuti da Roma, da Napoli e da Palermo alla stanza di Torino preferissero quella di Milano austriaca, però che colà le lettere e le scienze godessero di certa libertà ignota a Torino, con altre più cose gravissime che, se te ne piglia vaghezza, tu potrai leggere nel lib. 38 della Storia d'Italia sino al 1789. Altrove (lib. 48 della medesima Storia) il Botta esce fuori con queste parole, che mal per noi se non le cavassimo dai libri di un piemontese sfegatato: «gli studi si fomentavano a patto che da angusto e stretto cerchio non uscissero. Nissuna vita nuova, nessuno impulso, nissuna scintilla di estro fecondatore: un'aere greve pesava sul Piemonte e i liberi respiri impediva. Lo stesso vivere tanto assegnato del Principe (e doveva dire tirannicamente pedantesco) faceva, che la consuetudine prevalesse sul miglioramento, e che nessuno dall'usato sentiero uscisse ancorachè più facili, più utili, e più dilettevoli strade in luoghi vicini di sè medesime facessero mostra. Dai duri lidi fuggivano Lagrange, Alfieri, Denina, Berthollet, e Bodoni, e fuggendo dimostravano, che se quella era terra per natura feconda gretto coltivatore aveva. Carlo Emanuele e Bogino si martirizzavano su i conti, e le generose aquile sdegnando quel palustre limo a più alti e più propizi luoghi s'innalzavano.» Quanta larghezza da cotesta ora in poi godessero gli studi nel Piemonte, anco in tempi recentissimi lascio, che altri dica: pure ieri i Gesuiti maestri, e donni dei cervelli piemontesi: no, veramente, a me non pare, e non parrà, spero, nè anco ai nostri buoni fratelli subalpini ch'essi possano presumere quanto a scienze ed a lettere di esercitare egemonìa sopra la Italia.

      Di quali armi favellate voi uomini piemontesi? Quando tra noi fioriva la onorata milizia, di voi non ci giunse novella; nella scuola dei Bracci, e dei Piccinini, tra gli Sforza da Cutignola, gli Alviano, i Colleoni, e tanti altri famosi si ricorda unico il Carmagnola; più tardi tra i Colonna, i Pescara, Giovannino dei Medici, gli Strozzi, il Ferruccio, i Doria, i Sanseverino, gli Orsini, i Farnese, gli Spinola unico Emanuele Filiberto; di cui gloria immortale la battaglia di San Quintino, la quale non egli vinse, bensì il conte di Aiamonte, il principe di Brunswick, e i conti di Hornes, e di Mansfeldt; Emanuele Filiberto arriva tardo sul campo di battaglia, e quando i francesi rotti fuggivano inseguiti dai raitri; solo con le artiglierie egli disperse l'ultimo corpo di fanti guasconi, che combattevano, disperati della vittoria, per proteggere la ritirata; nè seppe usare poi della vittoria, chè proseguendo il corso prospero avrebbe preso a mano salva tutti i francesi senza eccettuarne pure uno; e questo chiariremo con prove espresse se a Dio piacendo mi condurrò a dettare la vita di cotesto duca di Savoia. Certo con gloria maggiore o minore trattarono le armi i principi di Savoia; con grande Tommaso, con massima Eugenio; ma se togli l'ultimo gli altri ebbero emuli pari se non superiori a loro; questi poi veruno. Nel periodo lungo delle guerre napoleoniche i più famosi capitani come Bertoletti, Pino, Teuliè, e Vacani uscirono di Milano, i tre Lechi o Mazzucchelli da Brescia, Lahoz e Peyri furono mantovani, Bianchini, l'eroe di Tarragona, bolognese, il maresciallo Bianchi da Corno, Viani veronese, Zucchi reggiano, Severoli faentino, Palombini di Roma, Fontanelli da Modena, Colletta di Napoli; solo due noti nelle storie dava tutto il Piemonte, più illustre il primo, che fu Rusca, meno il secondo nominato Serras; nella guerra del 1848 venne fuori il Bava capitano di abilità mediocre, e di cattiva fortuna; nel 1849 ebbero ricorso a capitano straniero con perdita di riputazione, e sciagura della impresa. Adesso fanno caso grande del Lamarmora, ma non tutti in lui ripongono fede; ad ogni modo gli preferiscono il Cialdini od anco il Fanti, i quali insieme al Cucchiari vengono da Modena. Quanto a Garibaldi ormai è convenuto che generale matricolato non si possa estimare; di fatti della milizia ei sa una parte sola, una sola, tutte le altre ignora, e questa una è quella di vincere le battaglie.

      Questo intorno ai capitani; circa le milizie quando per tutta Italia andavano famose le Bande nere, ed anco la ordinanza della Milizia fiorentina le soldatesche del Piemonte si reputavano le più scadenti di tutte.—E perchè non paia avventato e maligno il mio dire, siami lecito riportare quanto trovo sparsamente scritto intorno ai capitani, e alle milizie piemontesi durante il secolo decimosesto nelle relazioni degli ambasciatori veneziani arguti nell'osservare quanto schietti nello esporre. Ora di queste relazioni io ne conosco cinque, stampate a Firenze; la prima è di Andrea Boldiù la quale è tratta dalla biblioteca Capponi insieme coll'altra del Lippomano, che al nostro scopo non approda; due ne somministra l'archivio reale di Torino e sono di Sigismondo Cavalli, e di Giovanfrancesco Morosini, l'ultima pubblicava il signor Cibrario. Quanto a' capitani; e ai soldati afferma il Boldiù: «ha parlato assai sua eccellenza; sebbene non ha terminato cosa alcuna di dare forma alle genti

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