Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi страница 6
Questo, mi si oppone, è rimoto, e viaggia con le nuvole nel cielo della poesia; certo io non lo nego rimoto, ed anco immaginoso; ma io vi ho detto, che non procediamo per tempi felici, però che tali non sieno quelli nei quali l'uomo o aderisce tutto al suolo, o tutto si esalta pei cieli; dal primo stato scappa fuori il banchiere, il venditore di ciarpe, lo scorticatore di capretti, il moderato; dal secondo, l'anacoreta della Tebaide, e il bramino dell'India; solo avventuroso è il tempo dove con giusta proporzione puoi compiacere alla materia e allo spirito, andando appunto composto l'uomo di anima, e di corpo: e poichè questo adesso non si può, colpa in molta parte altrui, e moltissima nostra, di concetti divisi, e di forze infermi, meglio che curvarci alla terra, sarà bello lasciarci trasportare colà donde la nostra stirpe ci comparisce un brulichio di formicole divorantisi fra loro sopra una zolla di argilla.
Dunque tu ti commetti in Dio?—Veramente l'uomo deve confidare in sè, ed in Dio; ma troppe cose vi hanno nel mondo a compire le quali l'uomo solo non basta; perochè niente o solo torni lo stesso; e finchè dura il flagello che disgrega le menti e i bracci dei mortali, ripariamo in Dio. A Dio poi è più difficile discredere, che facile credere: creature noi, use a vederci sorgere obietti dintorno creati per natura o per arte, come possiamo immaginare cosa non creata? Se Dio non fosse bisogneria inventarlo, affermano che sentenziasse il Robespierre, e s'ei il disse, fu favilla che uscì dal ferro. Noi abbiamo bisogno di Dio, nè possiamo fare a meno di credere così quando pensiamo al numero infinito degli uomini cui sembra fosse dato un cuore solo per sentirselo ferire, e braccia per portare catene, e sangue per versarlo su i campi, e su i patiboli,—e labbra, pur troppo, perchè ci tenessero incollata sopra la spugna satura del fiele della calunnia, e dello aceto dell'odio; se a tutti questi non fosse venuta ad allietare la idea dell'eterno Riparatore, quale mai tormento inventato dal demonio in un'estro di malignità potrebbe uguagliarsi all'amarezza della ora ultima della loro vita? Bella consolazione (esclamava il Generale Pasquale Paoli, che fu quasi il Garibaldi del secolo passato) bella consolazione per un'uomo il quale «per tutta la sua vita si travagliò in benefizio di una Patria, che sta per rinnegarlo; di una Libertà sul punto di voltargli le spalle, che con forze impari, male armate, peggio vestite si trova in procinto di essere assalito ed oppresso dai Francesi dieci volte più numerosi, ordinatissimi, forniti di ogni maniera di arme, squadernargli in faccia, fra un'ora una palla ti spaccherà il cranio, e tu cascherai in tutto e per tutto, zolla di terra sopra la terra!»
Speriamo nella virtù altrui, speriamo ad ogni evento in noi, e sempre in Dio.
Ora per me sarà divisa questa scrittura in quattro libri diversi di mole, come svariatissimi di stile; nel primo, esporrò il bisogno supremo della Italia di avere Roma.—Nel secondo, il diritto del popolo italiano su Roma.—Nel terzo, quello che il popolo ardisse per ripigliarsi la sua Roma.—Nel quarto, quello che incombe alla Monarchia eletta dal popolo, e quando, di compire su Roma.
Forse non sarà giunto a mezzo questo volume, quanto spetta alla Monarchia ella avrà fatto; in questo caso l'opera mia non verrà meno, però che invece di esporre quello che doveva operarsi da lei, con altra voce ormai, con altro cuore, raccolte le forze estreme, celebrerò l'operato;—intendo dire:—la Italia veracemente risorta su le ruine della oppressione dei Papi e degli Stranieri.
Il soccorso che mi aspettava dai gloriosi superstiti di questa guerra, non corrispose fin qui ai miei desiderii: non importa; io faccio come Abramo, mi metto in via sperando nella Provvidenza. Deus provvidebit. Per ora mi furono larghi dei loro ricordi il Generale Garibaldi, il Generale Sacchi, il chirurgo maggiore Ripari, il colonnello Cadolini ed altri generosi di cui il nome fie rammentato a suo luogo. Se l'ingrato silenzio dipende, perchè altri dubiti, che per me si possa compire il carico che mi sono tolto, io non me ne dorrò: potrebbe darsi ch'essi avessero ragione pur troppo;—se per modestia, la quale mai sì scompagna dagli uomini veracemente prodi, io affermo loro, e ci possono credere, che inopportuna è qui la modestia dacchè quanto essi operarono spetti meno a loro che ai tempi, e alla Patria; ad ogni modo, se volessero tacere delle proprie, perchè non favellano delle azioni altrui, massime di quelle dei defunti? Corre sacrosanto l'obbligo suscitare la fama dei caduti; io so che i morti anelano alla lode come i vivi alla luce; e pensino, che fratelli essi furono e sono, e che, la prima morte di ferro o di piombo essi ebbero dai nemici… ma la seconda, la morte dell'oblio, essi avrebbero da loro. Questo li muova, ed anco il pensiero, non darsi cosa la quale tanto dissuada da mettersi a cimento pel bene comune, quanto la vista della comune ingratitudine.
LIBRO I
Senza Roma non è Italia.
Quando scese in Italia, i suoi passi erano quelli di un Liberatore, le sue parole quasi di un Dio. Lo precedeva la Libertà come l'Aurora va davanti al Sole;—a cui ben guardava, vedeva lei non affatto lieta dei bei colori di primavera; nè le sue pupille giocondava pieno il raggio della speranza divina; tuttavolta nè manco appariva austera a modo di sacerdotessa che strascini all'altare di Nemesi la vittima espiatoria; su pel volto le tralucevano, contendenti fra loro la fiducia di essere, e il timore di non essere placata; di tratto in tratto volgeva il capo come chi sospetta di trovarsi non seguitata o tradita.
E dietro al Napoleonide veniva lo Spirito del passato; le vipere delle sue chiome pendevano giù morte in sembianza, e rovesciata a terra si tirava dietro la fiaccola senza fuoco; ma quando te lo attendevi meno, talune vipere si ripiegavano all'insù a modo di uncini, attestando non essere venuto manco in loro nè il maligno talento, nè il veleno; la teda poi di tratto in tratto mandava fumo, segno sicuro di fuoco doloso.—
Egli scese nelle terre d'Italia… e venuto sopra le pianure della Insubria, ordinò alla Libertà gli menasse davanti il destriero, il forte destriero delle battaglie, e la Libertà gli condusse la Rivoluzione.
La Rivoluzione appena scorse il Napoleonide puntò i piedi, e drizzò gli orecchi, abbrividì; ma quegli non istrinse labbro, nè aggrondò sopracciglia… le si accostò blando, con dolci nomi l'appella, la brancica amoroso; la Rivoluzione gira attorno repugnante portarlo; pensò egli allora ad Alessandro e al Bucefalo, e dubitando ch'ella spaurisse dell'ombra di lui, la drizzò verso il sole, e saltatole alla sprovvista in groppa, le disse:—va!
Non ci era mestiere sprone, anco della voce ce ne aveva d'avanzo, e nulla meno, ei la volle eccitare. La Rivoluzione cominciò prima a correre soavemente, poi mise le ale, volò, imperversò con la procella dei cavalli del sole quando vinsero la mano a Fetonte; allora il terrore cadde su l'anima del Napoleonide e dubitò che la Rivoluzione non trattenuta dalle pianure del mare, lo menasse diritto diritto in mezzo all'Oceano, al cenotafio lasciato vuoto dall'arduo Zio; nell'angoscia del cuore egli si volse allo Spirito del passato, gridando:—aiuto!
Allora lo Spirito del passato agitò le chiome di vipere, che si drizzarono tutte fischianti, ed ei se le strappò a ciocche facendone ritorte che gittava tra le gambe alla Rivoluzione; la quale incespicandovi dentro, diè di un cimbotto in terra a Villafranca e si slogò una spalla.—Adesso il Napoleonide la riconduce zoppicando ai presepi, e lo precede lo Spirito del passato: l'erba s'inaridisce sotto i suoi piedi, e la sua strada è pel cammino delle ombre: intanto la Libertà gli ammicca dietro col capo, ed appoggiata ad un'arbore, grida; ti aspetto qui! Che arbore è quello sotto cui lo aspetta la Libertà? L'arbore donde i popoli hanno cavato il ceppo e l'arnese su cui deposero il capo Carlo I e Luigi XVI.
Noi abbiamo bisogno di Roma, imperciocchè lo Spirito del passato