Il destino. Francesco Domenico Guerrazzi

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Il destino - Francesco Domenico Guerrazzi

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sopra esso uno specchio dove ogni uomo, comecchè rubicondo al paro dei bargigli del gallo, saria parso di verderame; pure anco a quel modo ritraeva la immagine degli obietti: pertanto Betta nella contigua stanza camminando a scancio venne ad appuntare gli occhi nello specchio, dove stava in certo modo dipinto il letto, Paride, ed ogni altra cosa a lui circostante; lì costei si pose senza neppure alitare sempre mirando da quella parte; Paride si rimase lungamente immobile; poi di un tratto cavò fuori di sotto al guanciale uno astuccio, e apertolo si pose a contemplare il ritratto, che racchiudeva; da prima la sua faccia s'illuminò, gli corruscarono gli occhi, il riso figlio dell'amore e della gioia gli allietò il sembiante; parve adorarlo con quel delirio passionato, che oltrepassando l'estremo limite del piacere diventa tormento; quindi a mano a mano, come comparisce la procella sopra le chete acque del mare, e le rimescola con furia infernale, e Dio e il Diavolo pare che nel furore della tempesta si ricambino maledizioni di fulmine, così Paride si sconvolse tutto, le pupille gli sparirono sotto le ciglia aggrondate, gli si gonfiarono i muscoli della fronte, si morse le labbra fino a grondare sangue; strinse con ismisurata rabbia entrambi i pugni, poi levato il destro braccio, e aperta la mano scaraventò il ritratto nell'opposta parete: ciò fatto con le mani si strinse la fronte coprendosi gli occhi: dopo pochi minuti sembra, che una mutazione accadesse nello spirito dello infermo, imperciocchè balzato da letto si diede carpone a cercare il ritratto, il quale rinvenuto intero si accostò al cuore spasimante fra l'angoscia, e la contentezza; e dacchè il ritratto rimbalzato dal muro era caduto giusto davanti al tavolino sormontato dallo specchio nel drizzarsi in piè egli si vide riflesso nel cristallo; si vide, e si atterrì nel contemplarsi tanto disforme da quello, che era stato prima: non potendo più oltre sostenere lo spettacolo di sè si accosta vacillando al letto, dove essendosi posto bocconi pianse amaramente. Betta questi casi mirò, e si sentì trapassata l'anima da una spada, molto più che incapace a porgergli consolazione scappò via turandosi la bocca, affinchè egli non udisse le sue strida.

      Quando fu alquanto rasserenata, Betta si lavò gli occhi, e fingendo essersi addormentata, anzi di questa sua negligenza domandando venia, tornò al letto di Paride spiando lo istante in cui il sonno scendesse a refrigerare le sue membra; ma il sonno fugge dagl'infelici, o vi si ferma quanto la farfalla sul fiore da morti: tuttavia ella, postasi a sedere accanto il letto, il suo capo abbandonò su le lenzuola, e fece le viste di dormire; intanto però stese la mano sotto il capezzale per pigliare il ritratto, e vedere un po', che diavolo si fosse; ma Paride al minimo moto apriva gli occhi ed ella ritirava la mano più presto, che vipera non fa la lingua: bisognò rimettere il tentativo alla notte, la quale venuta, più che mezza, Paride la passò in vaniloqui, o in lagni: oggimai egli non poteva dare altra testimonianza di vita, eccettochè con dimostrazione di dolore: poco innanzi l'alba egli si assopì, e Betta all'erta della occasione, cominciò ad allungare la mano procedendo in questa guisa: prima stendeva un dito poi l'altro, dopo puntando su questi spingeva innanzi cautissima il carpo della mano per ricominciare da capo; però se l'alito di Paride ingrossava, ella ferma lì come impietrita: riassicuratasi, il palpito alcun poco quetato di nuovo ripiglia il lavoro, che in breve la condusse a mettere le mani sopra l'astuccio; le pareva le scottasse le dita: nè da tanto sgomento nè da tanta paura dev'essere stato compreso chi prima si accostò all'ara degli Dei per commettervi sacrilegio: volse alcun poco le spalle al letto accostando il ritratto alla candela per contemplarlo a suo agio. Lo vide, e per un pelo non proruppe in un grido, imperciocchè la Fulvia comparisse a tutti maravigliosamente bella; e poi il pittore le aveva cresciuto grazia, cortigiani tutti i pittori; ma poichè la cortigianeria loro serve la bellezza, meritano indulgenza plenaria; pertanto Betta con una mano levata, e con la bocca aperta ammirava, quando allo improvviso sente come una morsa diaccia agguantarle la spalla, ond'ella urlò spiritata.

      — Gesù, Giuseppe, Maria, vi dono il corpo e l'anima mia.

      — Così dunque, subito dopo prese a rimbrottarla una voce, così dunque serbi fede al tuo padrone?

      La parola padrone, ma più il modo con che fu detta valsero a riporre in un attimo il cervello a partito alla Betta, che rispose così:

       — Paride! E tu non mi sei altro che padrone?

      — E che ti hanno ad importare i segreti del tuo padrone?

      — Che me ne importa?

      — Sì, che te ne importa?

      — Dio castiga i figliuoli, i quali mordono le mammelle, che gli hanno allattati; e in queste parole di Betta sonava un pianto, una rampogna, che anima viva non avrebbe potuto sopportare; molto più, che la povera donna, caso fosse, ovvero intenzione, con ambo le mani aperte si compresse il seno: cadde la ira a Paride, il quale su cotesto seno abbandonando il capo infermo esclamò:

      — O mamma mia!

      — Mira, Paride, tu te ne vai ed io me ne vo teco, e tu sai che il medico prima di dare mano alle medicine attende a conoscere la ragione del male, nel medesimo modo io, che non acconsento che tu te ne vada (di me poco importa), ho voluto pigliare contezza della tua infermità per vedere un po' se ci fosse verso di guarirla. Adesso so dove ti fa male la scarpa... tu ami...

      — Non è vero...

      — E questo dunque? Soggiunse la Betta mostrandogli il ritratto.

      — Non è vero... ch'è mai cotesto? Un ritratto va bene. Di donna? Di donna bella di forme... angelica quasi? Sì certo, e che per ciò? Tu credi che io l'ami, menamela davanti, e chiamami fellone se io non le mordo il cuore.

      — Anch'io nel tempo de' tempi diceva così, quando la gelosia mi dava martello, ma quando mi tornava a casa il mio Bastiano non mi sentiva balìa di guardarlo in volto; poi parendomi averlo offeso faceva la penitenza del peccato gittandogli le braccia al collo, e baciandolo piangendo.

      — O Betta, non è la gelosia, che mi travaglia, ella mi odia.

      — Ti odia? O brutta befana; ella ti odia... ti amerà... ti amerà; io ti so dire che io non sono io, o in capo ad un mese ella andrà pazza di te. Ti amo tanto io, e perchè non ti dovrà amare ella? Ma per principiare a modo e a verso, come si chiama cotesta femmina?

      — Ah! il suo nome è Fulvia...

      — Chi mai quella, che celebrano regina delle belle di Siena? Un occhio di sole, una rosa imbalconata?

      — Non so...

      — La Griffoli, via, quella che da fanciulla era dei Piccolomini, la parente del Papa?

      — Giusto quella dessa.

      — Oh! allora muta specie, Paride mio, qui inciampiamo dentro un comandamento del Signore... e capisci che direbbe mai l'anima di donna Flaminia, la madre tua, che fra onorata e bella non so qual fosse più, se lo venisse a sapere?

      — Ma, Betta, perchè non mi lasciavi stare? Vedi mi hai strappato la benda dalla scottatura, e adesso non ti dà l'animo di rifasciarla...

      — Paride, potresti patire, che la tua Betta diventasse un tratto una vituperosa portatrice di polli?

      — Ma, Betta, io nulla chiedo, nulla; non pretendo parlarle, rinunzierò a vederla, me ne andrò lontano da Siena, non ci tornerò senza ch'ella me ne abbia conceduto licenza; una cosa sola domando da lei.

      — E che cosa tu domandi allora?

      — Che mi assicuri, che ella non mi odia.

      — E non altro?

      — Null'altro, eccettochè, caso mai rimanesse vedova di suo marito, costui conta due volte tanto gli anni di lei, non mi lascerà addietro per un altr'uomo.

      —

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