a questa; nè solo perchè nell’ordine de’ peccati capitali quella è prima e questa è seconda, ma perchè l’una trovavo che era considerata madre dell’altra. Diceva infatti S. Agostino (De Virg. XXXI) che superbia partorisce invidia nè mai è senza tale compagna, e che (Civ. D. XIV 11) l’Angelo malo fu superbo e perciò invido. Il che da Agostino aveva appreso come Tomaso così Dante, il quale affermava (Inf. I 111 e Par. IX 129) che l’invidia del primo superbo era stata la cagione di tutti i mali al genere umano. Donde inferivo che la superbia era contro Dio, la invidia era contro gli uomini. Tanto più che Dante stesso dichiarava nel Convito (I 4) che la paritade de’ viziosi è cagione d’invidia; onde l’invidia, secondo lui, non avrebbe potuto ingenerarsi nell’Uomo contro Dio, sì solo in uomini contro uomini. Nè a ciò contradice il fatto che l’Angelo fu mosso da invidia verso l’Uomo: perchè quello, in parte simile in parte dissimile da questo, invidiò per la parte che in esso gli era simile prima: nella felicità; e volle che l’altro non gli fosse dissimile dopo: nella sventura. Adunque Lucifero ebbe invidia di Adamo e lo indusse al peccato di superbia: il primo superbo tra gli Angeli fece il primo superbo tra gli uomini. E come l’Angelo fu superbo e perciò invido, così anche l’Uomo dalla superbia passò all’invidia, e il peccato di Caino seguì quello di Adamo. Invero invido fu Caino, e che Dante così credesse come tutti, attesta la voce (Purg. XIV 133) ‛Anciderammi qualunque m’apprende’, che suona nel balzo secondo del Purgatorio. E così mi confermava nel pensiero che l’invidia differisce dalla superbia in questo, che l’una è contro gli uomini o, a dir meglio, contro il Prossimo, l’altra contro Dio; perchè mi pareva chiaro che finchè non erano che l’Angelo e Dio, non potè essere che il peccato di superbia, e quando l’Angelo ebbe un Prossimo che fu Adamo, allora sorse il peccato d’invidia; e similmente quando l’Uomo, o la coppia umana, era solo in faccia a Dio, non potè essere che superbo, e quando ebbe un Prossimo, cioè un fratello, allora fu anche invido. Ora un fatto pareva annullare il mio ragionamento, che invece lo afforzava e rendeva certo: il fatto che da Caino prende il nome la estrema circuizione della Ghiaccia, nella quale Ghiaccia io avevo veduto la punizione della superbia. Chè Dante, il quale stima diretta contro Dio l’ingiuria fatta ai genitori e ai consanguinei, ponendo lo stesso Caino una volta invido, una volta superbo, fa intendere come l’invidia quale si estrinseca nella latitudine del consorzio umano, sia contro il Prossimo, poi che quella che si estrinsecò nell’ambito breve della prima famiglia fu sì contro Dio, ma soltanto perchè tutto il Prossimo per il primo invido si riduceva al fratello. E ne consegue che il modo meno grave di superbia è una specie più grave d’invidia, e che l’una è finitima all’altra. Onde io cominciai a sospettare che in Malebolge, nel cui mezzo vaneggia il pozzo della superbia, fosse punita l’invidia, la quale Dante facesse a Virgilio chiamare frode in quei che fidanza non imborsa, la qual frode è modo che uccide soltanto lo vinco d’amor che fa natura, ossia quello che lega l’uomo all’uomo. E subito, a confermarmi, soccorse il luogo del Purgatorio in cui (XIII 37 e segg.) l’amore o carità è considerata virtù contraria all’invidia, come è manifesto a tutti. Uccidere il vincolo d’amore o fare contro la carità è dunque sì della frode in chi non si fida, e sì della invidia. Onde si faceva più probabile per me che fossero, la detta frode e l’invidia, una medesima colpa. Invero anche sì fatta Frode è solo rispetto a uomini, come l’invidia, perchè solo Dio e chi da Dio più tiene è obbietto dell’amore aggiunto, cui non oblia il fraudolento semplice. Il quale fraudolento, a modo nostro di vedere, sarebbe il solo vero ingannatore, poi che ha bisogno di raggiri, di insidie, di vie coperte per sopraffare chi, perchè non si fida, si guarda. Ora è chiaro quanto queste operazioni del fraudolento siano anche dello invido; tanto che la Bestia malvagia che è a guardia dell’ottavo cerchio sembra non più sozza imagine di froda che d’invidia. Anzi se invidia si sostituisce a froda, tutto parrà più chiaro in quel simbolo, e meglio si intenderà la voce del duca:
Ecco la fiera con la coda aguzza
Che passa i monti e rompe mura ed armi,
Ecco colei che tutto il mondo appuzza.[33]
Parole che suonano del loro proprio suono solo a chi intende che questo serpente... con la faccia d’uom giusto è l’invidia stessa infernale che dice Agostino; è la figura... la quale, come dice un antico, si partì dal fondo dell’Inferno da Lucifero, la quale prima usò ad ingannare i nostri primi parenti.
Sì: Gerione è l’invidia infernale, che fu cagione di tutti i mali al genere umano: più cercavo ne le valli di Malebolge e più me ne convincevo. Già la prima di esse cerchiava quelli che con segni e con parole ornate rinnovarono con Eva l’inganno del serpente biblico; e la seconda quelli che, come esso serpente, ebbero la lingua pronta sempre alle lusinghe: quelli insomma, l’una e l’altra, che nel far male al loro Prossimo usarono le stesse arti del primo Tentatore. Nella terza bolgia vedevo i simoniaci; e non è a dire come sul principio io divenissi perplesso a credere invidiosi quelli che adulterano per oro e per argento le cose di Dio. In ciò è, dicevo, avarizia, empietà o che so io, non invidia. Ma Dante stesso mi rassicurava sulla vera natura del peccato di simonia:
... la vostra avarizia il mondo attrista
Calcando i buoni e sollevando i pravi.
Il mondo attrista; cioè danneggia il genere umano, a cui volete male, a cui invidiate il bene, come già Satana; calcando i buoni, cioè facendo quello che l’invido fa, il quale, come spesso noi vediamo, nessun male crede poter fare più grande al buono e al valente, che esaltare sopra lui il malvagio e l’inetto. Si tratta, io soggiungeva leggendo in Agostino (Civ. Dei XV, 5), di quella invidentia diabolica, per la quale i pravi invidiano i buoni, per nessun’altra ragione se non che quelli sono buoni ed essi pravi. Anche il peccato di simonia io concludeva dunque essere invidia, e l’avarizia dei venditori delle cose divine intendeva essere altro che il mal dare e mal tener della quarta lacca. Nè gli altri peccatori di Malebolge mi parevano contrastare al concetto generale dell’invidia, che è mal vedere il bene del Prossimo, o al significato del primo peccato di invidia, commesso da Lucifero a sventura del genere umano: nè gl’indovini, che non vedono dinanzi più che Satana quando diceva. Sarete come Iddii; nè quelli che falsificarono sè in altrui forma, come Satana che si mutò in serpente; nè i falsi che hanno il principal vizio del diavolo che è bugiardo e padre di menzogna; nè i seminator di scandalo e di scisma che imitarono il Nemico che fu autore della separazione degli uomini da Dio; nè gli ipocriti tristi (aggiunto, questo, proprio degl’invidi) che, sotto color di bene, gente dipinta, come la figura che benigna avea di fuor la pelle, fecero il male; gli ipocriti che, come dice S. Gregorio (Mor. VIII 34) ‛laudari de inchoata iustitia appetunt, praeesse ceteris etiam melioribus concupiscunt’; nè i ladri che si trasformano in serpenti, nè i barattieri, nè i pravi consiglieri. E non mancavano altri indizi, messi qua e là ad ammonire il lettore che Malebolge è il regno dell’invidia. Papa Niccolò storce i piedi, quando apprende che non è Bonifazio quello che con tanta sua gioia credeva venuto anzi tempo in inferno: ‛Sei tu già costì ritto, Sei tu già costì ritto?’ E così tutti questi dannati sono ossessi dall’invidia: i due frati godenti,