Cocincina. Luca De Pasquale
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RACCONTI DI FUGHE E OSSESSIONI MUSICALI SENZA VIA DI SCAMPO Proprio come nel gioco d'azzardo evocato nel titolo, anche in «Cocincina» la veemenza delle parole è scandita a ritmo di puntate al rialzo, amplificate da un pesante e ruvido tappeto di citazioni hard rock (e non solo) recitate come un mantra dal protagonista, Daniele Malvestiti, mentre è intento a rischiare un piatto che non sceglierà mai di vincere contro l'unico reale avversario possibile: sé stesso.
Perché di folli come lui è difficile trovarne. «Solo chi ha conosciuto davvero il tradimento capisce da cosa nasce la necessità di giocare violento, giocare a perdere per far passare la notte, ammalarsi di vizi pigri per poter poi disporre di quell'uscita ripostiglio che è la dichiarazione pubblica di nuova vita». Con questa sorta di vademecum sgangherato a tinte esistenziali siamo di fronte a un tipo di narrativa difficilmente imbrigliabile nei canoni di un genere letterario specifico – sia esso un romanzo o un racconto breve – né tantomeno nella trama razionale e coerente di una storia dotata di un inizio, di uno sviluppo e di una fine catartica, o peggio ancora, retorica.
Chi legge capirà ben presto di non avere scampo; sarà costretto a cambiare più volte strada, barcamenandosi tra sterzate repentine verso dialoghi surreali con personaggi improbabili e alle volte osceni. Non riuscirà a svoltare l'angolo senza essere catapultato in salti temporali iperbolici – per non dire anacronismi voluti – degni dei più sordidi diari intimi e impronunciabili di un impenitente non immune alle uniche malattie che l'abbiano mai afflitto: i dischi, il basso elettrico e quella ipnotica concatenazione di impulsi e vibrazioni chiamata musica.
I 25 capitoli del libro sono racconti tra di loro slegati solo in apparenza; chiunque è chiamato infatti a maneggiarli come pezzi di un puzzle privo di una immagine definita. Essi scorrono come fotogrammi sparsi di un flusso di coscienza interrotto solo dalla vita rincorsa senza compromessi da un uomo che rifiuta di sottoporsi a qualsiasi anestesia. Un affamato di glorie mancate votato a difendere strenuamente ogni barlume di coscienza e lucidità perennemente fraintese, in un gioco votato al massacro.
Daniele Malvestiti è sì un perdente, ma solo a patto di seguire le sue di regole, anche se in una città come Napoli che già detta le proprie e senza alcuna pietà. Arrivato quasi ai cinquanta e privo di un'occupazione fissa, quest'uomo dall'anima sospesa, senza tempo, percorre il mondo e le sue occasionali geografie affettive con addosso l'adrenalina del rischio e il gusto della sconfitta. La sua veemente necessità di essere messo alla prova si traduce nel suo amore per l'heavy metal degli anni ottanta, nelle sue diramazioni minori e meno generaliste. I dischi di quell'epoca diventano così obiettivi di momentanea redenzione; intervalli in un percorso costellato di difficoltà pratiche; fraintendimenti relazionali, voglie spietate e condotte di sponda, in una onesta vocazione a perdere che si richiama al cinema esistenziale e invernale di Valerio Zurlini come all'estetica da loser selvaggio di un Lemmy Kilmister dalle apparenze ripulite.
Perché di folli come lui è difficile trovarne. «Solo chi ha conosciuto davvero il tradimento capisce da cosa nasce la necessità di giocare violento, giocare a perdere per far passare la notte, ammalarsi di vizi pigri per poter poi disporre di quell'uscita ripostiglio che è la dichiarazione pubblica di nuova vita». Con questa sorta di vademecum sgangherato a tinte esistenziali siamo di fronte a un tipo di narrativa difficilmente imbrigliabile nei canoni di un genere letterario specifico – sia esso un romanzo o un racconto breve – né tantomeno nella trama razionale e coerente di una storia dotata di un inizio, di uno sviluppo e di una fine catartica, o peggio ancora, retorica.
Chi legge capirà ben presto di non avere scampo; sarà costretto a cambiare più volte strada, barcamenandosi tra sterzate repentine verso dialoghi surreali con personaggi improbabili e alle volte osceni. Non riuscirà a svoltare l'angolo senza essere catapultato in salti temporali iperbolici – per non dire anacronismi voluti – degni dei più sordidi diari intimi e impronunciabili di un impenitente non immune alle uniche malattie che l'abbiano mai afflitto: i dischi, il basso elettrico e quella ipnotica concatenazione di impulsi e vibrazioni chiamata musica.
I 25 capitoli del libro sono racconti tra di loro slegati solo in apparenza; chiunque è chiamato infatti a maneggiarli come pezzi di un puzzle privo di una immagine definita. Essi scorrono come fotogrammi sparsi di un flusso di coscienza interrotto solo dalla vita rincorsa senza compromessi da un uomo che rifiuta di sottoporsi a qualsiasi anestesia. Un affamato di glorie mancate votato a difendere strenuamente ogni barlume di coscienza e lucidità perennemente fraintese, in un gioco votato al massacro.
Daniele Malvestiti è sì un perdente, ma solo a patto di seguire le sue di regole, anche se in una città come Napoli che già detta le proprie e senza alcuna pietà. Arrivato quasi ai cinquanta e privo di un'occupazione fissa, quest'uomo dall'anima sospesa, senza tempo, percorre il mondo e le sue occasionali geografie affettive con addosso l'adrenalina del rischio e il gusto della sconfitta. La sua veemente necessità di essere messo alla prova si traduce nel suo amore per l'heavy metal degli anni ottanta, nelle sue diramazioni minori e meno generaliste. I dischi di quell'epoca diventano così obiettivi di momentanea redenzione; intervalli in un percorso costellato di difficoltà pratiche; fraintendimenti relazionali, voglie spietate e condotte di sponda, in una onesta vocazione a perdere che si richiama al cinema esistenziale e invernale di Valerio Zurlini come all'estetica da loser selvaggio di un Lemmy Kilmister dalle apparenze ripulite.