Il fu Mattia Pascal. Luigi Pirandello

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Il fu Mattia Pascal - Luigi  Pirandello

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parola per cui tuo marito potrebbe non credere più a ciò che egli invece è felicissimo di credere. Te l’hanno accalappiato bene, va’ là!

      – Ah, è vero! è vero! – gemette Oliva. – Mi è venuto con le mani in faccia, gridandomi che mi fossi guardata bene dal metter in dubbio l’onorabilità di sua nipote!

      – E dunque? – dissi io, ridendo acre. – Vedi? Tu non puoi più ottener nulla negando. Te ne devi guardar bene! Devi anzi dirgli di sì, che è vero, verissimo ch’egli può aver figliuoli… comprendi?

      Ora perché mai, circa un mese dopo, Malagna picchiò, furibondo, la moglie, e, con la schiuma ancora alla bocca, si precipitò in casa mia, gridando che esigeva subito una riparazione perché io gli avevo disonorata, rovinata una nipote, una povera orfana? Soggiunse che, per non fare uno scandalo, egli avrebbe voluto tacere. Per pietà di quella poveretta, non avendo egli figliuoli, aveva anzi risoluto di tenersi quella creatura, quando sarebbe nata, come sua. Ma ora che Dio finalmente gli aveva voluto dare la consolazione d’aver un figliuolo legittimo, lui, dalla propria moglie, non poteva, non poteva più, in coscienza, fare anche da padre a quell’altro che sarebbe nato da sua nipote.

      – Mattia provveda! Mattia ripari! – concluse, congestionato dal furore. – E subito! Mi si obbedisca subito! E non mi si costringa a dire di più, o a fare qualche sproposito!

      Ragioniamo un po’, arrivati a questo punto. Io n’ho viste di tutti i colori. Passare anche per imbecille o per… peggio, non sarebbe, in fondo, per me, un gran guajo. Già – ripeto – son come fuori della vita, e non m’importa più di nulla. Se dunque, arrivato a questo punto, voglio ragionare, è soltanto per la logica.

      Mi sembra evidente che Romilda non ha dovuto far nulla di male, almeno per indurre in inganno lo zio. Altrimenti, perché Malagna avrebbe subito a suon di busse rinfacciato alla moglie il tradimento e incolpato me presso mia madre d’aver recato oltraggio alla nipote?

      Romilda infatti sostiene che, poco dopo quella nostra gita alla Stìa, sua madre, avendo ricevuto da lei la confessione dell’amore che ormai la legava a me indissolubilmente, montata su tutte le furie, le aveva gridato in faccia che mai e poi mai avrebbe acconsentito a farle sposare uno scioperato, già quasi all’orlo del precipizio. Ora, poiché da sé, ella, aveva recato a se stessa il peggior male che a una fanciulla possa capitare, non restava più a lei, madre previdente, che di trarre da questo male il miglior partito. Quale fosse, era facile intendere. Venuto, al l’ora solita, il Malagna, ella andò via, con una scusa, e la lasciò sola con lo zio. E allora, lei, Romilda, piangendo – dice – a calde lagrime, si gittò ai piedi di lui, gli fece intendere la sua sciagura e ciò che la madre avrebbe preteso da lei; lo pregò d’interporsi, d’indurre la madre a più onesti consigli, poiché ella era già d’un altro, a cui voleva serbarsi fedele.

      Malagna s’intenerì – ma fino a un certo segno. Le disse che ella era ancor minorenne, e perciò sotto la potestà della madre, la quale, volendo, avrebbe potuto anche agire contro di me, giudiziariamente; che anche lui, in coscienza, non avrebbe saputo approvare un matrimonio con un discolo della mia forza, sciupone e senza cervello, e che non avrebbe potuto perciò consigliarlo alla madre; le disse che al giusto e naturale sdegno materno bisognava che lei sacrificasse pure qualche cosa, che sarebbe poi stata, del resto, la sua fortuna; e concluse che egli non avrebbe potuto infine far altro che provvedere – a patto però che si fosse serbato con tutti il massimo segreto – provvedere al nascituro, fargli da padre, ecco, giacché egli non aveva figliuoli e ne desiderava tanto e da tanto tempo uno.

      Si può essere – domando io – più onesti di così?

      Ecco qua: tutto quello che aveva rubato al padre egli lo avrebbe rimesso al figliuolo nascituro.

      Che colpa ha lui, se io, – poi, – ingrato e sconoscente, andai a guastargli le uova nel paniere?

      Due, no! eh, due, no, perbacco!

      Gli parvero troppi, forse perché avendo già Roberto, com’ho detto, contratto un matrimonio vantaggioso, stimò che non lo avesse danneggiato tanto, da dover rendere anche per lui.

      In conclusione, si vede che – capitato in mezzo a così brava gente – tutto il male lo avevo fatto io. E dovevo dunque scontarlo.

      Mi ricusai dapprima, sdegnosamente. Poi, per le preghiere di mia madre, che già vedeva la rovina della nostra casa e sperava ch’io potessi in qualche modo salvarmi, sposando la nipote di quel suo nemico, cedetti e sposai.

      Mi pendeva, tremenda, sul capo l’ira di Marianna Dondi, vedova Pescatore.

      V. Maturazione

      La strega non si sapeva dar pace:

      – Che hai concluso? – mi domandava. – Non t’era bastato, di’, esserti introdotto in casa mia come un ladro per insidiarmi la figliuola e rovinarmela? Non t’era bastato?

      – Eh no, cara suocera! – le rispondevo. – Perché, se mi fossi arrestato lì vi avrei fatto un piacere, reso un servizio…

      – Lo senti? – strillava allora alla figlia. – Si vanta, osa vantarsi per giunta della bella prodezza che è andato a commettere c quella… – e qui una filza di laide parole all’indirizzo di Oliva; poi, arrovesciando le mani su i fianchi, appuntando le gomita davanti: – Ma che hai concluso? Non hai rovinato anche tuo figlio, così? Ma già, a lui, che glien’importa? E’ suo anche quello, è suo…

      Non mancava mai di schizzare in fine questo veleno, sapendo la virtù ch’esso aveva sull’animo di Romilda, gelosa di quel figlio che sarebbe nato a Oliva, tra gli agi e in letizia; mentre il suo, nell’angustia, nell’incertezza del domani, e fra tutta quella guerra. Le facevano crescere questa gelosia anche le notizie che qualche buona donna, fingendo di non saper nulla, veniva a recarle della zia Malagna, ch’era così contenta, così felice della grazia che Dio finalmente aveva voluto concederle: ah, si era fatta un fiore; non era stata mai così bella e prosperosa!

      E lei, intanto, ecco: buttata lì su una poltrona, rivoltata da continue nausee; pallida, disfatta, imbruttita, senza più un momento di bene, senza più voglia neanche di parlare o d’aprir gli occhi.

      Colpa mia anche questa? Pareva di sì. Non mi poteva più né vedere né sentire. E fu peggio, quando per salvare il podere della Stìa, col molino, si dovettero vendere le case, e la povera mamma fu costretta a entrar nell’inferno di casa mia.

      Già, quella vendita non giovò a nulla. Il Malagna, con quel figlio nascituro, che lo abilitava ormai a non aver più né ritegno né scrupolo, fece l’ultima: si mise d’accordo con gli strozzini, e comprò lui, senza figurare, le case, per pochi bajocchi. I debiti che gravavano su la Stìa restarono così per la maggior parte scoperti e il podere insieme col molino fu messo dai creditori sotto amministrazione giudiziaria. E fummo liquidati.

      Che fare ormai? Mi misi, ma quasi senza speranza, in cerca di un’occupazione qual si fosse, per provvedere ai bisogni più urgenti della famiglia. Ero inetto a tutto; e la fama che m’ero fatta con le mie imprese giovanili e con la mia scioperataggine non invogliava certo nessuno a darmi da lavorare. Le scene poi, a cui giornalmente mi toccava d’assistere e di prender parte in casa mia mi toglievano quella calma che mi abbisognava per raccogliermi un po’ a considerare, ciò che avrei potuto e saputo fare.

      Mi cagionava un vero e proprio ribrezzo il veder mia madre, lì in contatto con la vedova Pescatore. La santa vecchietta mia, non più ignara, ma agli occhi miei irresponsabile de’ suoi torti, dipesi dal non aver saputo credere fino a tanto alla nequizia degli uomini, se ne stava tutta ristretta in sé, con le mani in grembo, gli occhi bassi, seduta in un cantuccio, ma come se non fosse ben sicura di poterci

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