Pinocchio. Carlo Collodi
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Quand’ecco gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo davvero.
La gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela figurare. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest’uovo fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva:
– E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata?.. No, è meglio cuocerlo nel piatto!.. O non sarebbe più saporito se lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo da bere? No, la più lesta di tutte è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppa voglia di mangiarmelo!
Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua: e quando l’acqua principiò a fumare, tac!.. spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo dentro.
Ma invece della chiara e del torlo, scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso, il quale, facendo una bella riverenza, disse:
– Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa!
Ciò detto distese le ali e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio.
Il povero burattino rimase lì, come incantato, cogli occhi fissi, colla bocca aperta e coi gusci dell’uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i piedi in terra, per la disperazione, e piangendo diceva:
– Eppure il Grillo-parlante aveva ragione! Se non fossi scappato di casa e se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di fame! Oh! che brutta malattia che è la fame!..
E perché il corpo gli seguitava a brontolare più che mai, e non sapeva come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una scappata al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona caritatevole che gli avesse fatto l’elemosina di un po’ di pane.
VI. Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano, e la mattina dopo si sveglia coi piedi tutti bruciati.
Per l’appunto era una nottataccia d’inferno. Tuonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della campagna.
Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la fame era più forte della paura: motivo per cui accostò l’uscio di casa, e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al paese, colla lingua fuori e col fiato grosso, come un cane da caccia.
Ma trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa chiuse; le finestre chiuse; e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti.
Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò al campanello d’una casa, e cominciò a suonare a distesa, dicendo dentro di sé:
– Qualcuno si affaccierà.
Difatti si affacciò un vecchino, col berretto da notte in capo, il quale gridò tutto stizzito:
– Che cosa volete a quest’ora?
– Che mi fareste il piacere di darmi un po’ di pane?
– Aspettami costì che torno subito, – rispose il vecchino, credendo di aver da fare con qualcuno di quei ragazzacci rompicollo che si divertono di notte a suonare i campanelli delle case, per molestare la gente per bene, che se la dorme tranquillamente.
Dopo mezzo minuto la finestra si riaprì e la voce del solito vecchino gridò a Pinocchio:
– Fatti sotto e para il cappello.
Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l’atto di pararlo, sentì pioversi addosso un’enorme catinellata d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio appassito.
Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame e perché non aveva più forza di reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa.
E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno, gli presero fuoco e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere.
E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta.
– Chi è? – domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.
– Sono io, – rispose una voce.
Quella voce era la voce di Geppetto.
VII. Geppetto torna a casa, e dà al burattino la colazione che il pover’uomo aveva portata con sé.
Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora avvisto dei piedi, che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentì la voce di suo padre, schizzò giù dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul pavimento.
E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco di mestoli. cascato da un quinto piano.
– Aprimi! – intanto gridava Geppetto dalla strada.
– Babbo mio, non posso, – rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra.
– Perché non puoi?
– Perché mi hanno mangiato i piedi.
– E chi te li ha mangiati?
– Il gatto, – disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno.
– Aprimi, ti dico! – ripeté Geppetto, – se no quando vengo in casa, il gatto te lo do io!
– Non posso star ritto, credetelo. O povero me! povero me che mi toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la vita!..
Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un’altra monelleria del burattino, pensò bene di farla finita, e arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra.
Da principio voleva dire e voleva fare: ma poi quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentì intenerirsi; e presolo subito in collo, si dette a baciarlo e a fargli mille carezze e mille moine, e, coi luccioloni che gli cascavano giù per le gote, gli disse singhiozzando:
– Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?
– Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran fame e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene; sei stato cattivo, e te lo meriti», e io gli dissi: «Bada, Grillo!..», e lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la testa di legno» e io gli tirai un martello di legno,