Poesie scelte. Giovanni Prati

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Poesie scelte - Giovanni Prati

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da un canto. E con le bianche

      Dita sfogliava una recente rosa

      Che la gentil fioraia, in trapassando

      Data gli avea. Dal doloroso petto

      Sospirò Arrigo a contemplar divelta

      La beltà di quel fior.

      – «Perchè sospendi,

      Adolfetto, il tuo giuoco?… A chi riguardi

      Sì fisamente?… Di’; conosceresti

      Quel signor bruno?…»

      «Se il conosco! e molto

      Male ei mi fece!…»

      «Che?»

      «Spinsemi a terra».

      «Dove?»

      «Fuggendo per le nostre sale».

      «Tu sogni?»

      «Babbo mio, deh! non guardarmi

      Sì corrucciato».

      «Parla, angelo, parla!…»

      «La mamma corse ed egli era scomparso.»

      «Ed è quello?»

      «Sì, quello.»

      «In lontananza

      Forse t’inganni!»

      «Oh no.»

      «Quando ripassa,

      Guardalo attento!» —

      – Ripassò Leoni. —

      – «Dunque?…»

      «Gli è quello!» —

      «Arrigo si coperse

      Di mortal pallidezza! i polsi un tratto

      Gli si allentâro; e sotto alla vergogna

      Sospirò di morire. Il paradiso

      Della sua vita si chiudea per sempre!

      Ma dopo gli urti di quel primo affanno,

      Che ogni forza, ogni senso gli scompose,

      Dell’aere diffuso al refrigerio,

      Pietosamente assursero in Arrigo

      I secondi pensieri.

      «Ella tradirmi!…

      Ella sì amante, che parea vivesse

      Del soffio mio!… Tradirmi ella, mendìca

      E allo splendor delle mie nozze assunta!

      Ella che sempre io nominai coi nomi

      Più giocondi e soavi!… Arrigo, acqueta

      L’anima ardente… e non potria quel folle

      Essersi appena avventurato un giorno

      A tentar le mie soglie, e così offesa

      Edmenegarda dispregiar quell’atto,

      Da non curarne o vergognar tacendo?

      Talor maestro di sospetti è il caso

      Perfido e vile. Ma… quel novo stato

      Di tristezza che l’occupa!… Parlarle

      Uopo è una volta. Oh incanutir le chiome

      Mi possano oggi! Mi diserti il cielo

      D’ogni ricchezza, un misero sepolcro

      Copra i miei figli… ma non sia l’orrendo

      Fallo; non sia!…»

      Da una lampada d’oro

      Sul letto nuzïal d’Edmenegarda

      Una timida luce si diffonde

      Velatamente.

      Ella è soletta, e il capo

      Stanco reclina tra le ardenti palme.

      E pensava, pensava!… E in quei pensieri

      Era un torbido assalto di paure,

      Di rimorsi, d’amor, di pentimenti,

      E indomato un desio di sovvenirsi,

      E un lungo sforzo d’oblïar.

      Da quella

      Mutua battaglia alfin scosse la testa.

      Arrigo entrò. Lieve un tremor sul labbro,

      Lieve un pallor; non altro. – E a lei vicino

      Si pose.

      – «Arrigo!»

      «Edmenegarda! È tempo

      Ch’io vi favelli. Rammentate i giorni

      Del nostro amore? Ei furon lieti!… e forse

      Non torneranno più!…»

      «Tristo è il presagio,

      Arrigo mio! »

      «Sentite, Edmenegarda.

      Qualche mistero di dolor vi siede

      Nell’anima profonda. Io non vorrei

      Aver fatto una misera. Quel giorno

      Che legai la mia fede (oh così amaro

      Non credea mi tornasse il ricordarlo!)

      Quel giorno come adesso, io tenea stretta

      Nelle mie la tua mano… e questi accenti

      M’uscîr dal core: Edmenegarda, eterni

      So che non duran sulla terra affetti.

      O inesorata li spegne la morte,

      O li lacera il mondo. Io credo e spero

      Che mi amerai… Ma… se una volta stanca

      Di me tu fossi… se al tuo cor non pari

      Trovassi il mio… se di tristezza e noia

      I tuoi giorni languissero… prometti

      Che parlerai, prometti! – E a te piangente

      Parve strano quel dir; tu non credevi

      Che quest’ora arrivasse…. Edmenegarda,

      Tu nol credevi! – Or via; parla una volta:

      Che ti contrista?… Questa lunga e dura

      Serie di giorni desolati – è troppo.

      Parla; ti versa nel mio cor. Non sono

      L’amico tuo?…» —

      Fu dieci volte spinta

      Quella infelice a rivelar la colpa.

      Ma il terror, ma l’amor, ma quella stessa

      Bontà d’Arrigo, a cui tanta ferita

      Già recar non sapea, miseramente

      La rattennero – e tacque.

      «Oh più non dirmi

      Di sì dolenti cose! A te ben noto

      Esser dovria perchè sì mesta ho l’alma!…

      Son questi i giorni che a’ miei dolci colli

      Gir mi lasciavi; e della madre in seno

      Io deponeva i verecondi arcani

      Del mio felice vivere! – Da un anno,

      Sai ch’ella… è morta!…» —

      E, a quella pia memoria,

      Le cadeva una lacrima, confusa

      Col rossor di meschiar l’urna materna

      Alla prima menzogna.

      – «Edmenegarda!…

      Null’altro?… Questo… veramente questo

      V’amareggia?… Null’altro?…»

      «E perchè fiso

      Così mi guardi?» —

      Tutto in quell’occhiata

      Edmenegarda intese; e la sostenne

      Imperterrita.

      –

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