Primi poemetti (1904). Giovanni Pascoli
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Ubbidì Rosa al subito comando.
Sotto il paiolo aggiunse legna, il sale
gettò nell’acqua che fremé ronzando.
Stacciò: lo staccio, come avesse l’ale,
frullò fra le sue mani; e la farina
gialla com’oro nevicava uguale.
Ne sparse un po’ nell’acqua, ove una fina
tela si stese. Il bollor ruppe fioco.
Ella ne sparse un’altra brancatina.
E poi spentala tutta a poco a poco,
mestò. Senza bisogno di garzone,
inginocchiata nel chiaror del fuoco,
mestò, rumò, poi schiaffeggiò il pastone,
fin che fu cotto; e lo staccò bel bello,
l’ammucchiò nel paiolo, col cannone
di pioppo; e lo sbacchiò sopra il tarvello.
Ora la madre nella teglia un muto
rivolo d’olio infuse, e di vivace
aglio uno spicchio vi tritò minuto.
Pose la teglia su l’ardente brace,
col facile olio; e, solo intenta ad esso,
un poco d’ora l’esplorò sagace.
L’olio cantò con murmure sommesso;
un acre odore vaporò per tutto.
Fumavano le calde erbe da presso,
nel tondo ch’ella inebbriò del flutto
stridulo, aulente; e poi nel canovaccio
nitido e grosso avviluppava il tutto.
E Rosa intanto sospendea lo staccio,
ponea le fette sopra un bianco lino,
stringea le còcche, e v’infilava il braccio.
Tornò Viola, e furono in cammino.
Rosa e Viola furono in cammino.
Ma la pia madre altro pensò; discese;
spillò la botte d’un segreto vino.
E poi, tornata, con le figlie prese
pei greppi; lesta, poi ch’una campana
si sentiva sonare dal paese:
non più che un’ombra pallida e lontana.
L’ANGELUS
Sì: sonava lontana una campana,
ombra di romba; sì che un mal vestito
che beveva, si alzò dalla fontana,
e più non bevve, e scongiurò, di rito,
l’impazïente spirito. Via via
si sentì la campana di San Vito,
si sentì la campana di Badia
e gli altri borghi, di qua di là, pronti
cantando si raggiunsero per via.
C’era di muti spiriti nei fonti
un palpitare al tremolìo sonoro
ch’empieva l’aria e percotea nei monti.
La donna andava con le figlie; e loro
squillò sul capo, subito e soave,
dalla lor Pieve un gran tumulto d’oro.
E tu nascesti Dio da un piccolo Ave…
– Tu che nascesti Dio dal piccolo Ave,
dalla sorrisa paroletta alata
(disse la voce tremolando grave):
tu che nell’aia bianca e soleggiata
eri e non eri, seme che vi avesse
sperso il villano dalla corba alzata;
ma poi l’uomo ti vide e ti soppresse,
t’uccise l’uomo, o piccoletto grano;
tu facesti la spiga e poi la mèsse
e poi la vita: fa’ che non in vano
nei duri solchi quella gente in riga
semini il pane suo quotidïano.
O Dio, neve raffrena, pioggia irriga,
sole riscalda quei futuri steli;
fa’ che granisca la futura spiga,
o tu cui l’uomo seminò nei cieli! —
Così diceva tremolando grave
la voce d’oro su l’aerea Pieve;
e gli aratori l’Angelus e l’Ave
dissero; e in mezzo alla preghiera breve
la dolce madre a lui venìa; non sola:
l’erano accanto con andar più lieve
bionda la Rosa e bruna la Viola.
IL CACCIATORE
Po le seguiva, il fido cane. Or essi
siedono su la porca assai contenti.
La Pieve sorridea sotto i cipressi.
Po ringhiò, fece biancheggiare i denti:
passava un uomo, un cacciator; ristette.
«Giovine, giunto qui tra le mie genti!
ciò che avanza per sei, basta per sette»
disse il capoccio; e poi con lieta cera:
«Male per voi, che bene per noi mette!
Noi ci vedemmo, o giovine, alla fiera
di Castiglione, all’osteria di Betto.
Tuo padre, Andrea buon’anima, non c’era
l’uomo più bravo e tuttavia più schietto;
e dava tempo al tempo: ecco e tu ari
un campetto con siepe e con fossetto…
Bevi il mio vino e siedi tra’ miei cari!»
Ed ei s’assise, il giovane, tra loro,
e bevve il rosso vino. Era di faccia
alla fanciulla da’ capelli d’oro.
Ma la fanciulla dalle bianche braccia
non lo guardava. Ed il capoccio allora
gli domandò della sudata caccia.
E lui: «La prima non ho fatto ancora;
e sì, che non so dir con quanta pena
io tutta notte l’aspettai, l’aurora!
Che ieri io rincasava a notte piena,
pensando ad altro, a non so che: zirlare
io sentiva nell’alta ombra serena.
Erano i tordi, che già vanno al mare,
in alto, in alto, in alto. Io sentìa quelle
voci dell’ombra, nel silenzio, chiare;
e mi pareva un canticchiar di stelle.
Ma i tordi ancor non calano, e non sento
se non il fischio delle ballerine
seguire il solco dell’aratro lento;