I pescatori di balene. Emilio Salgari

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I pescatori di balene - Emilio Salgari

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il tenente. – Il capodolio è inquieto.

      – Che brutto sguardo! – disse Koninson con voce un po’ alterata. – Si direbbe che affascina.

      – Non guardarlo, Koninson.

      – Guardo il punto ove posso lanciare il mio rampone.

      Le due baleniere avevano rallentata la corsa ed avanzavano colla massima prudenza cercando di virare al largo.

      Ad un tratto il capodolio gettò fuori una nuvoletta di vapore più denso, agitò la coda e si inabissò lentamente formando un piccolo vortice.

      – Fermi! – gridarono il tenente e il mastro.

      I marinai alzarono i remi e le due baleniere rimasero ferme, lasciandosi dondolare dalle onde.

      Nessuno fiatava nè si muoveva e tutti, eccettuato il tenente, erano pallidissimi. Persino Koninson, che aveva già cacciato centinaia di volte i giganti del mare era bianco e le sue membra provavano, di quando in quando, dei tremiti nervosi.

      Era il principio di quella strana paura che sovente invade i balenieri, anche i più audaci e i più invecchiati nel mestiere, paura che talvolta assume proporzioni tali da far perdere completamente la testa ai timonieri e ai remiganti e da togliere ai fiocinieri le forze in siffatta guisa da non essere più capaci di alzare il braccio per scagliare, al momento opportuno, il rampone.

      Se il mare fosse stato tranquillo e le baleniere, nel ricadere, non avessero fatto rumore, si sarebbe udito il cuore di Koninson e di tutti gli altri battere precipitosamente.

      – Coraggio, fiociniere! – disse il tenente.

      – Ne ho, signore! – rispose il giovanotto, sforzandosi di sembrare calmo. – Aspetto solo che il mostro ricompaia per piantargli nelle costole il mio rampone, e Dio mi danni se non gli farò una ferita mortale.

      – Attenti, ragazzi! – gridò in quell’istante mastro Widdeak.

      Cento passi più innanzi, alla superficie del mare si scorse un largo tremolio, poi apparve prima l’estremità del muso indi la testa e quindi l’intero capodolio.

      Ad un cenno del tenente i marinai tuffarono i remi e la baleniera mosse velocemente contro il gigante. Già non era più che a trenta braccia e Koninson aveva afferrato e alzato il rampone, quando il cetaceo sollevò colla sua potente coda una montagna d’acqua così enorme, che la baleniera fu rovesciata violentemente su di un fianco atterrando coloro che la montavano

      – Maledizione – urlò Koninson.

      Dopo quella prima ondata il mostro ne sollevò una secondi e finalmente una terza ancora maggiore che riempì più che mezza l’imbarcazione, la quale si trovò nell’impossibilità di agire.

      Koninson e i marinai abbandonato il rampone e i remi si videro costretti a vuotare l’acqua imbarcata che minacciava di mandarli a picco, mentre il cetaceo, preso da un subitaneo accesso di collera, correva qua e là come fosse impazzito gettando sordi brontolii che somigliavano al tuono udito a grande distanza e lanciando ovunque colpi di mare. Pareva che cercasse i nemici per frantumarli a colpi di coda ma, male servito dai suoi occhietti che, sono debolissimi, non riusciva a scorgerli.

      Mastro Widdeak, che fino allora si era tenuto un po’ indietro, spinse la baleniera contro di lui. In tre minuti giunse ad una distanza di sole venti braccia.

      – Coraggio, Harwey! – gridò Koninson.

      Il giovane fiociniere, quantunque pallidissimo e in preda ad un forte tremito che paralizzava in parte le sue forze, alzò il rampone cercando un buon punto per lanciarlo.

      – Getta! – urlò il mastro.

      Il rampone ondeggiò innanzi ed indietro e partì. Forò due onde, sfiorò una terza e si piantò nel fianco destro del capodolio in una parte carnosa e ricca di tendini.

      Subito la baleniera si mise a indietreggiare rapidamente lasciando scorrere la lenza.

      Il mostro, ferito forse pericolosamente fece un balzo innanzi gettando un urlo così acuto da poter essere udito a parecchi chilometri di distanza, indi si tuffò. Ma non rimase sott’acqua che brevissimi istanti e riapparve cento braccia più innanzi gettando un secondo e più forte urlo, battendo furiosamente la coda e rovesciandosi sul fianco ferito come se cercasse di strapparsi l’arma che lo tormentava.

      Mastro Widdeak diresse l’imbarcazione verso di lui, mentre Harwey afferrava una lancia munita all’estremità di una specie di palla tagliente, aspettando il momento che alzasse la coda per lanciargliela sotto le ultime vertebre caudali.

      Il tenente spinse pure innanzi la sua baleniera, ma il cetaceo, che senza dubbio non era stato ferito molto gravemente dopo aver descritto un semicerchio, si mise a filare con estrema rapidità verso nord-nord-est.

      In breve la lenza del rampone fu tutta consumata senza che il capodolio scemasse la sua velocità. Harwey attaccò una seconda la lenza, ma anche questa in pochissimo tempo fu tutta fuori.

      – Cerchiamo di affaticarlo! – disse mastro Widdeak.

      – Lega la lenza! – gridò Koninson, che era ancora lontano, quantunque i remiganti arrancassero disperatamente.

      Harwey legò la lenza e la baleniera fu trascinata dal cetaceo che continuava a nuotare verso nord-nord-est, senza tuffarsi e senza fermarsi un solo istante.

      Ma anche questo tentativo non riuscì a scemare la corsa del mostro, anzi si accrebbe tanto che c’era da temere che le onde invadessero la baleniera.

      Mastro Widdeak fece legare la «droga» alla lenza e lasciò andare il capodolio, certo di ritrovarlo ben presto senza vita.

      – A bordo! – disse egli. – Quel brigante si di stancherà di correre e allora lo troveremo.

      La scialuppa virò di bordo e si diresse verso il «Danebrog» che avanzava a tutte vele spiegate verso la baleniera del tenente, sulla quale bestemmiava su tutti i toni e in tutte le lingue della terra il fiociniere Koninson.

      Pochi minuti dopo i dodici cacciatori salivano sul «Danebrog».

      – Mille tuoni! – esclamò Koninson, mettendo piede sulla tolda. – Non mi aspettavo quest’oggi un tiro così birbone. Brigante d’un capodolio, sfuggire così al mio rampone! Ma se lo incontro ancora gli farò passare un gran brutto quarto d’ora.

      – Non pigliartela tanto a cuore, fiociniere! – disse il tenente. – Lo raggiungeremo e ben presto, è vero, capitano?

      – Lo spero – rispose Weimar.

      – Lo spero anch’io – disse Koninson. – Ma se il mio rampone l’avesse toccato!… Quel briccone di Harwey ha sempre più fortuna di me.

      – Saresti geloso? – chiese il capitano, ridendo.

      – Io! Mai più! Ma se l’avessi ramponato io!… Mille tuoni, non sarebbe corso tanto.

      – Ti ripeto che lo raggiungeremo.

      – Ma dove sarà fuggito?

      – Scommetterei una botte di «wisky» contro una tazza di «gin» che si è diretto verso lo stretto di Isanotzkoi.

      – Ci dirigeremo adunque verso

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