I Pirati della Malesia. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу I Pirati della Malesia - Emilio Salgari страница 4
Il capitano non lo ignorava, sicché appena li ebbe scorti, s’affrettò a discendere sul ponte. In poche parole informò l’equipaggio del pericolo che li minacciava. Solo un’accanita resistenza poteva salvarli.
L’armeria di bordo, per disgrazia, non era troppo ben fornita. I cannoni mancavano totalmente, i fucili erano appena sufficienti per armare l’equipaggio e in gran parte assai malandati. V’erano però delle sciabole d’arrembaggio, arrugginite sì, ma ancora in buono stato, qualche pistolone, qualche rivoltella e un buon numero di scuri.
I marinai e i passeggeri, armatisi alla meglio, si precipitarono verso poppa, la quale trovandosi immersa, poteva offrire una buona scalata. La bandiera degli Stati Uniti salì maestosamente sul picco della randa e mastro Bill la inchiodò.
Era tempo. I quattro prahos malesi che filavano come uccelli non erano più che a sette od ottocento passi e si preparavano ad assalire vigorosamente il povero tre-alberi.
Il sole si alzava allora sull’orizzonte e permetteva di vedere chiaramente coloro che li montavano.
Erano ottanta o novanta uomini, semi-nudi, armati di stupende carabine incrostate di madreperla e di laminette d’argento, di grandi parangs di acciaio finissimo, di scimitarre, di kriss serpeggianti con la punta senza dubbio avvelenata nel succo d’upas, e di clave smisurate, dette kampilang, che essi maneggiavano come fossero semplici bastoncini.
Alcuni erano malesi dalla tinta olivastra, membruti e di lineamenti feroci; altri erano bellissimi dayaki di alta statura, con le gambe e le braccia coperte di anelli di rame. C’erano pure alcuni cinesi, riconoscibili per i loro crani pelati e lucenti come avorio, alcuni bughisi, macassaresi e giavanesi. Tutti quegli uomini tenevano gli occhi fissi sul vascello e agitavano furiosamente le armi, emettendo urla feroci che facevano fremere. Pareva che volessero spaventare i naufraghi prima di venire alle mani.
A quattrocento passi di distanza un colpo di cannone rimbombò sul primo praho. La palla, di calibro considerevole, andò a fracassare l’albero di bompresso, il quale si piegò, tuffando la punta in mare.
– Animo, ragazzi! – urlò il capitano Mac Clintock. – Se il cannone parla, è segno che la danza è cominciata. Fuoco di bordata!
Alcuni colpi di fucile seguirono il comando. Urla atroci scoppiarono a bordo dei prahos, segno che non tutto il piombo era andato perduto.
– Così va bene, ragazzi! – urlò mastro Bill.
– Quei brutti musi là non avranno tanto coraggio da spingersi fino a noi. Ohé! Fuoco!
La sua voce fu coperta da una serie di formidabili detonazioni che venivano dal largo. Erano i pirati che cominciavano l’attacco.
I quattro prahos parevano crateri infiammati, eruttavano tremende grandinate di ferro. Tiravano i cannoni, tiravano le spingarde, tiravano le carabine, schiantando, atterrando, distruggendo tutto con una precisione matematica.
In men che non si dica quattro naufraghi giacevano sulla tolda senza vita. L’albero di trinchetto, schiantato sotto la coffa, precipitò sul ponte ingombrando di pennoni, di vele, di cavi. Alle urla di trionfo erano succedute urla di spavento e di dolore, gemiti e rantoli d’agonia.
Era impossibile resistere a quell’uragano di ferro che arrivava con rapidità spaventosa facendo saltare alberi, murate, madieri.
I naufraghi, vistisi perduti, dopo aver scaricato sette od otto volte i loro moschettoni, malgrado i sagrati del capitano e di mastro Bill, abbandonarono il posto fuggendo a tribordo, riparandosi dietro i rottami dell’attrezzatura e delle imbarcazioni.
Alcuni di loro perdevano sangue e gettavano grida strazianti.
I pirati, protetti dai loro cannoni, in capo a un quarto d’ora giunsero sotto la poppa del vascello tentando di issarsi a bordo.
Il capitano Mac Clintock si gettò da quella parte per ribattere l’abbordaggio, ma una scarica di mitraglia lo freddò assieme con tre uomini.
Un urlo terribile echeggiò per l’aria:
– Viva la Tigre della Malesia!
I pirati gettano le carabine, impugnano le scimitarre, le scuri, le mazze, i kriss e danno intrepidamente l’abbordaggio aggrappandosi alle murate, ai paterazzi e alle griselle. Alcuni si slanciano sulla cima degli alberi dei prahos, corrono come scimmie lungo i pennoni e piombano sull’attrezzatura del tre-alberi lasciandosi scivolare in coperta. In un attimo i pochi difensori, sopraffatti dal numero, cadono a prua, a poppa, sul cassero e sul castello.
Presso l’albero di maestra un solo uomo, armato di una pesante e larga sciabola d’abbordaggio, rimaneva ancora…
Quest’uomo, l’ultimo della Young-India, era l’indiano Kammamuri, il quale si difende come un leone, smussando le armi del nemico incalzante e percuotendo a destra e a sinistra.
– Aiuto! aiuto!… – urlò il poveretto con voce strozzata.
– Ferma! – tuonò d’improvviso una voce. – Quell’indiano è un prode!…
3. La Tigre della Malesia
L’uomo che aveva gettato in così buon momento quel grido poteva avere trentadue o trentaquattro anni.
Era alto di statura, con la pelle bianca, i lineamenti fini, aristocratici, due occhi azzurri, dolci, e i baffi neri che ombreggiavano le labbra sorridenti.
Vestiva con estrema eleganza: giacca di velluto marrone con bottoni d’oro stretta ai fianchi da una larga fascia di seta azzurra, calzoni di broccatello, lunghi stivali di pelle rossa, a punta rialzata, e un ampio cappello di paglia di vera manilla in testa. Ad armacollo portava una magnifica carabina indiana e al fianco pendeva una scimitarra la cui impugnatura d’oro era sormontata da un diamante grosso quanto una nocciola, d’uno splendore ammirabile.
Con un cenno allontanò i pirati, si avvicinò all’indiano che non aveva pensato a rialzarsi, tanta era la sua sorpresa nel sentirsi ancora vivo, e lo guardò per alcuni istanti con profonda attenzione.
– Che ne dici? – gli chiese con tono allegro.
– Io!… – esclamò Kammamuri, che si domandava chi poteva mai essere l’uomo dalla pelle bianca che comandava quei terribili pirati.
– Sei sorpreso di sentirti ancora la testa sulle spalle?
– Tanto sorpreso che mi domando se è vero che sono ancora vivo.
– Non dubitarne, giovanotto.
– Perché? – chiese ingenuamente l’indiano.
– Perché non sei un bianco, innanzitutto…
– Ah! – esclamò – Voi odiate i bianchi?
– Sì.
– Non siete un bianco, voi, dunque?
– Per Bacco, un portoghese puro sangue!
– Non capisco allora perché voi…
– Alto là, giovanotto; questo discorso non mi va a sangue.