Il re del mare. Emilio Salgari
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Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda.
Un grido di sorpresa ed insieme d’orrore era sfuggito al portoghese.
Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue.
– Per Giove! – esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo.
– Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa?
– Le formiche bianche, signor Yanez, – rispose il malese con voce strozzata facendo un’orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava.
– Le formiche bianche! – esclamò il portoghese. – Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne?
– I dayaki, signor Yanez.
– Ah! Miserabili! Passa nell’infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente.
– Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki.
– Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare.
Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo.
– Oh diavolo! – mormorò il portoghese. – Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche.
– Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, – disse Sambigliong.
– Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l’audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse.
– Palle d’acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez.
– Falle portare in coperta e da’ ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati?
– Anche quelli.
– Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all’assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota!
Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente.
– Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche?
– Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, – rispose il malese.
– Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità?
– Non credo, padrone.
– Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale.
– Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po’ risentito:
– Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone.
– Vedremo in seguito, – rispose Yanez. – E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.
2. Il pellegrino della Mecca
Se quel veliero appariva bellissimo all’esterno, tale da poter gareggiare coi più splendidi yachts di quell’epoca, l’interno, specialmente il quadro di poppa, era addirittura sfarzoso.
La sala centrale sopratutto, che serviva da pranzo e da ricevimento insieme, era ricchissima, con scaffali, tavola e sedie in mogano con intarsi di madreperla e filettature d’oro, con tappeti persiani in terra e arazzi indiani alle pareti e tende di seta rosa con frangie d’argento alle piccole finestre.
Una grande lampada, che pareva di Venezia, pendeva dal soffitto e tutto all’intorno, negli spazi nudi, si vedevano splendide collezioni d’armi di tutti i paesi.
Coricato su un divano di velluto verde, fasciato dal capo alle piante e avvolto in una grossa coperta di lana bianca, stava l’intendente di Tremal-Naik già medicato e rinforzato da qualche buon cordiale.
– Sono cessati i dolori, mio bravo Tangusa? – gli rispose Yanez.
– Kickatany possiede degli unguenti miracolosi, – rispose il ferito. – Mi ha spalmato tutto il corpo e ora mi sento molto meglio di prima.
– Raccontami come è successa la cosa. Innanzi tutto, è sempre al kampong di Pangutaran, l’amico Tremal-Naik?
– Sì, signor Yanez, e quando l’ho lasciato stava fortificandosi per resistere ai dayaki fino al vostro arrivo. Quando è giunto a Mompracem il messo che vi abbiamo spedito?
– Tre giorni or sono e come vedi noi non abbiamo perduto tempo ad accorrere col nostro miglior legno.
– Che cosa pensa la Tigre della Malesia di questa improvvisa insurrezione dei dayaki, che fino a tre settimane or sono guardavano il mio padrone come il loro buon genio?
– Abbiamo fatto insieme tante congetture e forse non abbiamo indovinato il vero motivo che ha deciso i dayaki a prendere le armi e a distruggere le fattorie che erano costate tante fatiche a Tremal-Naik. Sei anni di lavoro e più di centomila rupie spese forse inutilmente! Avete qualche sospetto?
– Ecco, signore, quanto abbiamo potuto sapere. Un mese fa e probabilmente anche prima, è sbarcato su queste coste un uomo che non sembra appartenere nè alla razza malese, nè a quella bornese, che si diceva fervente mussulmano e portava in testa il turbante verde come tutti coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. Voi sapete, signore, che i dayaki di questa parte dell’isola non adorano i geni dei boschi, nè gli spiriti buoni e cattivi come i loro confratelli del sud e che sono invece mussulmani, a loro modo s’intende e non meno fanatici di quelli dell’India centrale. Che cosa abbia dato ad intendere quell’uomo a questi selvaggi, nè io nè il mio padrone siamo riusciti a saperlo. Il fatto è che riuscì a fanatizzarli ed indurli a distruggere le fattorie ed a ribellarsi all’autorità del signor Tremal-Naik.
– Ma che istoria mi racconti tu! – esclamò Yanez, che era al colmo della sorpresa.
– Una storia tanto vera, signor Yanez, che il mio padrone corre il pericolo di morire abbruciato nel suo kampong assieme alla signorina Darma, se voi non accorrete in suo aiuto.
– L’uomo dal turbante verde ha aizzato quei selvaggi non solo contro le fattorie…