La caduta di un impero. Emilio Salgari

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La caduta di un impero - Emilio Salgari

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milio Salgari

      LA CADUTA DI UN IMPERO

      CAPITOLO PRIMO. LA FUGA DEGLI ELEFANTI E DEI RAJAPUTI

      Anche l’Assam, come tante altre parti dell’India, è ricchissimo di pagode, abbandonate da secoli e secoli in mezzo alle foreste dai loro sacerdoti, per cause sconosciute.

      Ne possiede poi specialmente una, ormai stretta da tutte le parti dagli alberi, che ben poco doveva aver da invidiare alla grande sciultre di Maduré, una delle più magnifiche che si trovino nell’India, e che si dice avesse costato ventidue anni di lavoro.

      Era appunto quella di Kalikò, che avrebbe potuto, per le sue dimensioni enormi, per la magnificenza delle sue sculture, per l’altezza dei suoi tetti, far impallidire anche quelle famose di Benares.

      Un tempo doveva aver servito a numerosi pellegrinaggi, poi forse la guerra, i banditi, i thugs, che non risparmiavano nemmeno i sacerdoti, l’avevano costretta a sospendere le sue feste sacre e lasciarsi prendere dalle piante parassite che sono le più tremende nemiche dei monumenti indostani, ed i rotangs, e le liane, coi calamus interminabili si erano aggrovigliate alle sue maestose colonne, stringendosi intorno ai giganteschi animali, per 1o più elefanti di pietra, di statura gigantesca, separati dalle più strane incarnazioni di Visnù, e poi erano salite, alte, alte, non più fermate da alcun tarwar, ed avevano invasi gli altissimi tetti piramidali, tutto avvolgendo, tutto coprendo.

      La marcia delle male piante indiane è qualche cosa di spaventoso, d’impossibile a descriversi.

      Una radura prima coltivata viene, per una causa qualsiasi, abbandonata, e dopo un mese non se ne trova quasi più traccia: le maligne erbe tutto hanno invaso. Una città, dopo un assalto, viene abbandonata dai suoi abitanti? Ecco le erbe maligne muovere a loro volta all’attacco, coprendo case, templi, piazze, monumenti, bastioni, fortezze, e tutto lentamente sgretolando.

      Occorreranno degli anni, tuttavia a poco a poco quelle salde costruzioni cederanno e lasceranno cadere i massi. Cercate poi la città? Ma che!… Non ritroverete che immense rovine.

      Ceylon, la grande isola indostana, conta centinaia e centinaia di città, un tempo rigogliose, tutte coperte di piante, e così fitte, che gli esploratori rinunciano quasi sempre a soddisfare la loro curiosità, anche per paura delle tigri che si trovano dei comodi covi intorno alle rovine.

      Yanez, segnalata la pagoda, come abbiamo detto, si era avanzato subito, in silenzio, alla testa di cento rajaputi e dei suoi fedelissimi sikkari. Conduceva con sé il vecchio paria ed anche il giovane avvelenatore.

      Tremal-Naik guidava l’altra squadra, egualmente grossa ed egualmente agguerrita, per impedire ai congiurati la fuga da ogni parte. Dopo che i rajaputi ebbero tagliata una vera strada fra la muraglia di verzura, il primo gruppo giunse, senza ostacoli, dinanzi a una delle porte della colossale pagoda.

      Come quasi tutte quelle dei templi indù, era di bronzo anziché di legno, con molte belle figure di animali e di uomini, e così massiccia, da togliere subito l’idea a Yanez di abbatterla.

      «Che cosa ne dici tu?» chiese al paria, mentre i rajaputi si allargavano puntando le carabine contro le numerosissime finestre che si aprivano sopra dei giganteschi colonnati, di forma quadrata, ed anche quelli tutti abbelliti da sculture. «Saresti tu capace di gettarla giù?»

      «Non mi ci proverei nemmeno, Altezza» rispose il prigioniero. «Non sono figlio d’un gigante indiano».

      «Lo vedo dalla tua statura. E senza chiavi noi non potremo certamente entrare».

      «Vi sono altre porte, assai più piccole, poiché questa è la principale, e chissà che qualcuna sia stata lasciata aperta dai congiurati».

      «Cerchiamo di ricongiungerci con Tremal-Naik» disse Yanez, dopo aver riflettuto qualche momento. «I rajaputi sono a posto, quindi il nemico non potrà sfuggirci. Andiamo a vedere se ha trovato qualche passaggio».

      Chiamò i suoi sikkari, diede al comandante della piccola truppa alcuni ordini, poi si allontanò, sempre seguito dai due prigionieri. Le piante rendevano l’avanzata abbastanza difficile, ma gli sikkari lavoravano con lena coi loro coltellacci ricurvi, recidendo un numero infinito di liane e di rotangs, che si erano strettamente legati fra di loro, formando dei padiglioni immensi.

      Dopo un buon quarto d’ora, Yanez udì il «chi va là» dell’altro drappello il quale si era appostato dietro il tempio, allargando le sue file in modo da occupare parecchie centinaia di metri. «Non fate fuoco!» disse il maharajah. «Siamo noi».

      Tremal-Naik, avendo subito riconosciuta la voce, si fece rapidamente innanzi seguito da un paio d’uomini. «Non si assalta dunque?» chiese l’indiano.

      «Già!… Si fa presto a gettare giù questo castello di carta che si sorregge da chissà quanti secoli. Ci vorrebbero dei grossi mortai ed in gran numero. Hai trovato nessuna porta, tu?» «Sì, quattro, tutte piccole e di bronzo massiccio, assolutamente inattaccabili». «Ed anche quella che ho scoperta io non si può assolutamente forzare». «Che cosa conti di fare?»

      «Di entrare egualmente» rispose Yanez. «Scalare quelle finestre, con tutte queste colonne, è un giuoco da ragazzi. Hai veduto brillare nessuna luce?» «No, nessun lume è comparso alle finestre». «E non hai udito rumori?» «Nemmeno».

      «Eppure i congiurati devono essere qui dentro, e si troveranno probabilmente in buon numero; è vero tu, vecchio?» «Io credo, Altezza» rispose il paria, «Da dove entrava quella gente?» «Dalla porta principale, quella che abbiamo visitata». Yanez cavò l’orologio mentre Tremal-Naik accendeva una candela.

      «Già mezzanotte ed un quarto» disse. «Sarebbe il buon momento per sorprenderli nel primo sonno. La pagoda è circondata ormai, nessuno potrà fuggire senza cadere nelle mani dei nostri rajaputi, quindi possiamo agire senza perdere altro tempo. Vieni con me, ora che i tuoi uomini sono a posto, e andiamo a provare la scalata a qualche finestra». «Abbiamo corde?»

      «Finché vuoi, e tutte armate d’arpioni d’acciaio. Dieci dei miei rajaputi ne portano un vero carico».

      Ritornarono tutti insieme dinanzi alla porta principale della pagoda, più chiusa che mai, e cercarono il punto per la scalata. Fu scelta una finestra, di dimensioni più vaste delle altre e che si apriva ad un’altezza di circa quindici piedi, al di sopra di due teste di elefante di dimensioni enormi, e che erano sorrette da una colonna di bellissimo marmo verde. Una corda, armata di un gancio, fu gettata destramente da un sikkaro fra una delle due trombe e ben fissata.

      «Tu prima, poi il ragazzo» disse Yanez al paria. «Non dimenticatevi che noi teniamo gli occhi su di voi, e che abbiamo le pistole già armate». «Non ho alcun desiderio di fare un capitombolo, Altezza» rispose il vecchio. «Ma potresti fuggirmi nell’interno della pagoda». «Per farmi uccidere?» «Non hai delle conoscenze fra i congiurati che si radunano qui?»

      «Sì, ed è appunto per questo, Altezza, che non mi sento affatto tranquillo. Io ho tradito la causa di Sindhia e si farà il possibile ora per sopprimermi». «Ci saremo noi, mio caro, e siamo uomini da farne di grosse. Orsù, sali».

      Intanto altre tre corde erano state fermate sulle trombe degli elefanti, per rendere la salita più spedita e più agevole. Uno dopo l’altro i due prigionieri, Yanez, Tremal-Naik e gli sikkari, raggiunsero il finestrone che aveva perduto tutti i suoi vetri chissà da quanti anni. Le due teste di elefante erano così enormi da poter reggere anche cinquanta persone.

      «Ecco una piccola piazza forte» disse Yanez. «Dietro queste proboscidi potremo sfidare il fuoco…»

      Si era bruscamente interrotto precipitandosi verso il finestrone con una pistola in mano.

      «Hai

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