Il Libro Nero. Barrili Anton Giulio

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Il Libro Nero - Barrili Anton Giulio

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falconiere andò verso l'uscio della sala e la spalancò. Frattanto si udiva lo scalpiccìo dei piedi nel corridoio, e la gaia voce di Fiordaliso.

      – Entrate, messere pellegrino; venite a scaldarvi e a rifocillarvi un tratto in buona compagnia. —

      Allora fu veduto entrar nella sala un uomo smilzo e lungo come… dove pescherò io il paragone? come le speranze dell'autore di questo racconto.

      Egli si fece innanzi, rasentando una ricca mensa, intorno alla quale erano seduti dieci o dodici convitati. La sua cappa di bigello, tutta sgualcita e rattoppata in più luoghi, il sarrocchino coperto di nicchi marini e il largo cappello che s'era lasciato ricadere dietro le spalle, facevano contrasto co' farsetti e giustacuori di velluto variopinto, con le berrette piumate, e le collane d'oro alle quali accresceva splendore la luce riflessa dei doppieri. Ma più assai che le vesti, contrastava la sua pallida faccia coi volti allegri degli ospiti di Roccamàla.

      Chi era costui? Un romèo, cioè un pellegrino che veniva da Roma. Pellegrini si dicevano coloro i quali andavano a sciogliere il voto ai luoghi santi, e segnatamente al sepolcro di Cristo; romèi più propriamente coloro i quali andavano alla eterna città, per baciare il piede al Giove di bronzo, ribattezzato San Pietro, e per ottenere la benedizione del papa. Ma quello del romèo non era un mestiero, sibbene uno stato accidentale e transitorio dell'uomo; ora, che altro fosse, e a qual ceto appartenesse il nuovo venuto, non era dato d'intendere. Poteva essere un povero diavolo, che, stanco di servire gli uomini, si fosse accomodato ai servigi di Dio, od anco un barone, carico di peccati, che fosse andato a pentirsene a Roma, col cilicio alle reni e col bordone tra mani.

      La cera del pellegrino non lasciava intendere se egli fosse di questa o di quell'altra specie; ma certo non era d'uomo da poco. Il viso, un tal po' allungato e scarno, mostrava que' fini contorni che non sono oggi, e per fermo non erano allora, di gente rozza e villana. Assai meno poteva indovinarsi l'età, imperocchè quel suo viso era tale da rispondere ad ogni congettura, e si poteva dargli trenta come sessant'anni; privilegio dei vecchi e dei giovani invecchiati, allorquando gli uni e gli altri abbiano membra asciutte, e carni e peli senza un colore spiccato.

      Per farla finita con le dipinture, diremo ch'egli era aitante della persona, e per avventura oltre la comune degli uomini, che infine i suoi modi erano d'uomo punto impacciato nel farsi innanzi ad una nobile brigata.

      Egli entrò diffatti con passo fermo e sicuro, affrontando gli sguardi curiosi; e rasentando, come ho già detto, la mensa, andò difilato verso il conte Ugo, che al suo apparire s'era cortesemente alzato da sedere, per farglisi incontro.

      – Entrate, messer pellegrino; – aveva detto quest'ultimo, accompagnando le parole con atti graziosi. – Deponete il vostro bordone e il cappello, e sedete qui daccanto a me. Il nostro Fiordaliso cederà di grand'animo il suo posto al nuovo ospite che la nostra buona ventura ci manda.

      – E non gli chiede nemmanco il suo nome! – borbottò fra i denti mastro Benedicite, in quella che andava a sedersi al suo posto consueto, nel basso, della tavola. – Già, egli è sempre stato così, come tutti i suoi vecchi! Suo padre, il taciturno, non apriva la bocca che cinque o sei volte all'anno, e ci volevano proprio i forastieri, per fargliele metter fuori, quelle quattro parole! —

      Il pellegrino, intanto, si era seduto a fianco del conte Ugo, e dalle sue mani aveva ricevuto la coppa ospitale; ma in cambio di recarsela alle labbra, stava curiosamente a guardarla.

      – Vi piace questa coppa, messer pellegrino? – ripigliò a dire il conte Ugo. – A me duole di non potervela offerire in presente, dacchè essa è la coppa dei signori di Roccamàla, la coppa di un mio famoso antenato, che portava appunto il mio nome, or sono forse cento e trent'anni. Non è egli vero, mastro Benedicite?

      – Sì, messere; – rispose il vecchio, – Ugo il negromante mori nel 1150. E la coppa, narrano le cronache, fosse quella di Borman, gigante che i Liguri adorarono poscia come un dio, la quale fu donata al conte Ugo dalla fata Melusina. Il santo vescovo Gualberto voleva buttarla giù nel torrente, ma il vostro trisavo Aleramo…

      – Basta, basta! – interruppe il Conte. – Ecco già un monte di parole per una coppa che non ne franca la spesa, quantunque sia d'oro. Ella ha un sol pregio, messer pellegrino; vo' dire l'amorevolezza con la quale io la presento a' miei ospiti.

      – Lo so, messer lo Conte, lo so; – rispose il romèo. – Questa è la fama che di voi corre nel mondo.

      Quindi, rivoltosi alla brigata, soggiunse, innanzi di recar la coppa alle labbra:

      – Nobili messeri, io bevo alla vostra felicità, se pure è possibile che un uomo sia al mondo felice.

      – Grazie dell'augurio, messer pellegrino; – disse Ansaldo di Leuca; – ma voi m'avete l'aria di dubitarne. O perchè non potrebbe uomo esser felice in questo mondo?

      – In hac lacrymarum valle; – borbottò mastro Benedicite. – Ora vediamo che cosa gli sa risponder costui. A' suoi pari non hanno di certo a mancar le ragioni! —

      Ma il pellegrino li lasciò a bocca asciutta ambedue, contentandosi a rispondere:

      – Messere, a chiarirvi cotesto per bene, si vorrebbe una troppo lunga dissertazione.

      – E voi sarete stanco; – entrò a dire il conte Ugo.

      – Oh, non già, messer lo Conte! – rispose il pellegrino. – Vengo da Roma a piccole giornate, e non fo molta fatica. Oltre di che, il còmpito ch'io m'ho preso laggiù, mi ha consentito di giovarmi dell'opera di un ronzino; e Lutero, comunque non faccia gran mostra di membra, è un animale che sa il debito suo.

      – Che nome! Lutero! – esclamò Enrico Corradengo.

      – Un nome greco; – rispose il pellegrino – a Roma si studia molto il greco, oggidì.

      – Gran città, quella Roma! non è egli vero, messer pellegrino?

      – Sì, davvero, gran città; e chi non l'ha veduta, sia detto con vostra licenza, nobili messeri, non ha veduto nulla. E dire che di presente ella non è ancor giunta a quel tanto di grandezza che papa Leone X ha in mente!

      – Leone X! – non potè rattenersi dallo interrompere mastro Benedicite. – O non è più papa Onorio IV?

      – Ah! voi siete forte di cronologia, a quel che pare, mastro Benedicite! – rispose il pellegrino. – Onorio IV se ne è salito diritto al cielo, dove sta pregando per la conservazione di Santa Madre Chiesa e pel suo trionfo sui tristi che le fan guerra. Ora abbiamo pontefice il sant'uomo Leone X, munificentissimo principe, il quale dà opera a grandi e laudabili novità. Vedrete la basilica di San Pietro, quando sarà riedificata, e mi saprete dire s'ella non sarà divenuta la più gran meraviglia del mondo cattolico. —

      Così dicendo, il pellegrino fece col capo il cenno di chi ha nominato una cosa sacra. Mastro Benedicite non aggiustava fede a' suoi orecchi medesimi. Quell'umile e costumato pellegrino, che parlava con tanta reverenza cristiana, era egli colui che di là dal ponte levatoio di Roccamàla gli aveva pur dianzi parlato, a lui mastro Benedicite, in sì beffarda maniera? Un uomo avveduto avrebbe, a dir vero, notate sulla faccia del pellegrino, segnatamente ai lati delle labbra, alcune rughe, nelle quali usa nascondersi l'ironia, e in certe guardature, che accompagnavano le parole, sarebbe colto in flagranti lo scherno. Ma il buon falconiere, quantunque sapesse di latino, non era uomo da intendere questi nonnulla; argomentate poi se potesse coglierli a volo! Egli era come trasognato, e già si pentiva in cuor suo di aver così male inteso, e peggio giudicato, un uomo che faceva testimonianza di tanta religione.

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