L'Immorale. G. Butti

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L'Immorale - G.  Butti

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la necessità d’una espiazione non vengono estrinsecate con la fortuita scoperta della colpa stessa e quindi col crollo dell’edifizio laborioso e doloso; ma con la dimostrazione schiacciante che il miraggio di felicità, il quale sembrava dover risplendere fulgentissimo dalla riuscita del piano criminale, è invece, dopo il trionfo, svanito del tutto e per sempre.

       A me sembra che questa soluzione, esclusivamente psicologica, sia nello stesso tempo artisticamente più simpatica e moralmente più significativa. I fatti intimi, siccome son quelli che si lascian meno sorprendere e seguire dall’osservazione comune, riescono più convincenti dei fatti esteriori; poiché le inevitabili contradizioni, che son prodotte dall’infinita varietà di rapporti e di contingenze, fanno apparir questi, – esposti all’assidua vigilanza del publico, – confusi, discordi, inconcludenti, casuali, rendendoli perciò inetti a servire d’esempio efficace.

      È lo stesso motivo per cui un dettato morale risulta assai più saldo e rispettato se imposto dalle minacce d’una religione, che non dalle pene d’una legge, – cioè da un turbamento certo di conscienza, che non da un’incerta rovina materiale, sebbene più grave e spaventosa.

      Il caso d’un colpevole vittorioso, mortificato dalla sua propria conscienza, mi sembra, per tutte queste considerazioni, che debba essere un esempio morale di gran lunga superiore al caso d’un colpevole sorpreso e punito dalla Giustizia degli uomini o dalla oscura volontà del Destino. A questo proposito, io credo che, riguardo al resultato etico, siano ancora insuperati nella loro intenzionalità i tragici greci; i quali mostravano bensì un delinquente come Oreste, uccisore della madre, assolto dall’Areopago, ma lo circondavano tosto d’un coro atroce di Furie, invisibile agli altri e instancabili nel dilaniarlo. L’acutezza ellenica aveva già intuito quanto oggi nel campo dell’Etica va man mano conquistando anco i più tardi e i più restii; che cioè le azioni umane, buone o malvage ch’esse siano, non ànno alcun valore in quanto son soggette a castigo od a premio; ma ne ànno uno grandissimo, quando si considerino nei loro effetti psicologici e nelle loro più profonde conseguenze morali.

      Questo ò voluto rapidamente accennare, perché il lavoro che segue avesse quell’interpretazione, alla quale dò maggior peso e per la quale esso fu ideato.

      Maggio 1894.

E. A. B.

      I

      Suonaron le dieci, lentamente, nell’ombra. Poco dopo i rintocchi si ripeterono più decisi, più rapidi nell’anticamera.

      Enrico, dopo avere alcun tempo indugiato origliando tra i due battenti socchiusi, entrò cautamente nella stanza, avvolta in una densa penombra verdognola. L’aria v’era un po’ viziata, benché un diffuso profumo, misto di violetta, d’acqua di Colonia e di tabacco, vi signoreggiasse: v’era quell’odore speciale, direi quasi organico, che ànno le camere dove qualcuno abbia lungamente dormito; e un respiro lieve e alquanto irregolare annunziava appunto che una persona vi dormiva ancora serenamente in braccio all’onda dei sogni mattutini.

      Il servo attraversò in punta dei piedi la camera, e s’avvicinò all’alta finestra, ch’era stata accuratamente rinchiusa ma lasciava da alcune connessure penetrare il giorno già avanzato, intersecando di lamine luminose l’oscurità. Aperse senza far remore le imposte; la luce verdognola delle persiane invase, diffondendosi, la stanza, e andò a frangersi nelle ricche dorature e nella lucidezza metallica degli specchi. Nel mezzo ergevasi, tra il lusso del cortinaggio di velluto, il letto di mogano artisticamente intagliato a foggia antica, e qua e là spiccavan varî mobili di diverso stile: una spera altissima rifletteva quell’eleganza un po’ chiassosa in una cornice ad alto rilievo, raffigurante nella base un canotto marinaresco, e negli stipiti, – da un lato, un amplesso di palmizî, i cui ciuffi larghi, protendendosi, componevan l’architrave, – dall’altro, un cespite di arnesi da pesca bellamente raggruppati. Sopra gli usci pendevano dei trofei guerreschi e dei massacri da caccia: dalle pareti, arazzi policromi a soggetti mistici e profani. Era un complesso di lussuosa ricercatezza, in cui, più che il gusto, si notava il desiderio esagerato d’accumulare oggetti ricchi e preziosi in poco spazio.

      Enrico, spalancate le imposte, si rivolse e guardò il padrone che dormiva sempre, supino sul gran letto, il viso rivolto verso l’alto, – un viso fino, accurato, un po’ pallido, ma con un’espressione di calma dolcissima. Le dieci eran già battute da qualche minuto, e il servo aveva l’ordine di svegliarlo appunto a quell’ora. Egli s’accostò al letto, sostò alquanto di fronte all’inconsapevol serenità del dormente, poi si decise a scuoterlo dal letargo profondo, chiamandolo una prima volta leggermente, poi un’altra volta più forte.

      – Signore!.. Signore!..

      Paolo Érmoli si scosse d’un tratto. Aperse quanto poteva gli occhi, li fissò un po’ turbato in volto al servo.

      – Signore, sono le dieci! – disse Enrico, impassibile come un’erma.

      – Le dieci? – Paolo chiese senza capire.

      – Le dieci, – ripeté il servo.

      Paolo Érmoli si fregò gli occhi con un moto infantile, si stirò un poco le membra ancor torpide, poi, come un ricordo lieto gli fosse balenato nel pensiero, sorrise ed esclamò allegramente:

      – Via, apri le finestre e lascia entrare un po’ d’aria.

      Pronunziò queste parole con una così schietta espansione, come volesse dilatare i polmoni a un libero respiro in un’aria fresca e salubre per un istintivo bisogno di forte vitalità.

      Enrico obedì prontamente; schiuse le vetrate, spalancò le persiane e un nembo di polvere d’oro precipitò nella camera. Il mattino d’aprile, tepido e chiaro (era il sabato santo), ostendeva al giacente un cielo temprato e puro, d’una trasparenza di cristallo cobalto; i fastigi bianchi delle opposte case riverberavan la gran luce, come fossero incandescenti, nella camera lussuosa, riempiendola tutta d’un chiaror gajo, quasi eccessivo.

      Quella luce suprema, quell’aria primaverile, d’un tenue tepor d’ombra, esilararono ancor più il volto di Paolo; gli parve di specchiare in quel giocondo spettacolo mattutino, la rinascenza dell’anima sua; oh, anch’egli in quel giorno trionfava, dopo una lunga lotta combattuta contro gli uomini, e, vincitore, s’incamminava a ricevere il pallio sospirato della vittoria!

      – Portami sùbito il caffè, – gridò Paolo con lo stesso accento di prima al servo, in aspettazion d’ordini su la soglia.

      Enrico annuì silenziosamente, e uscì.

      Paolo (avrà avuto trent’anni all’aspetto; era magro, ma roseo, con una breve barba a punta assai più bionda dei capelli arruffati) s’appoggiò ai cuscini, socchiuse gli occhi e s’abbandonò all’ebbrezza di quell’esaltazione orgogliosa. Ei si sentiva sodisfatto e felice, e, senza spingere l’occhio nel fosco passato, assaporava sensualmente il dolce benessere dell’ora presente. Non era stato forse il desiderio di tutta la sua giovinezza quell’opulenta indipendenza di vita che or mai poteva godere incontrastata? Senza pensare ai mezzi, con cui era riuscito a raggiungerla, egli si compiaceva ingenuamente nel sottile raffronto tra la condizion presente e gli anni trascorsi di torbide inquietudini e di diuturne umiliazioni; e gli sembrava d’essere uscito da una lunga battaglia, affrontata lealmente, dopo aver conquistato all’avversario le bandiere ed averne invaso trionfante le ubertose contrade. Provava quella stessa gioja orgogliosa che prova un capitano dopo una dura vittoria; e, come a questo, essa gli faceva dimenticare i caduti nella battaglia.

      Attraverso però a quel miraggio di felicità materiale, s’insinuava a poco a poco, limpido e crescente, un pensiero più intimo, che forse lo riempiva ancor più dell’altro di dolcezza: uno di quei pensieri sentimentali, che commuovono

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