Il bacio della contessa Savina. Caccianiga Antonio

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Il bacio della contessa Savina - Caccianiga Antonio

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nel palchetto del teatro, o trasportata nelle loro braccia nei vortici delle danze, fra i doppieri ardenti, il profumo dei fiori, e l'ebbrezza d'una musica affascinante.

      Quando alla sera io udiva dalla mia cameretta il rumore della carrozza che la conduceva ai piaceri del mondo, mi sentiva il raccapriccio come un uomo assalito dalla febbre. Quante notti insonni ho passate a raggirarmi nel letto, quanti strani progetti ho concepiti colla fantasia malata, rammentandomi il pugnale d'Otello, e di tutti gli amanti che vendicarono gli oltraggi ricevuti dalle donne adorate! La sola diversione, l'unico conforto dei miei affanni era lo studio assiduo ed intenso.

      La libreria dello zio non mi forniva che i classici, ma un professore che mi voleva bene mi somministrava un'ampia messe di produzioni moderne. Io mi perdeva nelle meditazioni, e passava le lunghe sere del verno avvolto in un vecchio tabarro del Canonico, a leggere ed annotare i più celebrati lavori dello spirito umano: e quando la divina fanciulla, reduce dalle feste del gran mondo, dopo la mezzanotte, saliva alla sua stanza signorile nel palazzo Brisnago, essa poteva vedere il pallido lumicino dello studente che vegliava agghiacciato, per arricchire la mente di quelle cognizioni che innalzano l'uomo sapiente al disopra dei nobili, dei ricchi e degli eletti della fortuna.

      Mi coricavo assai tardi affranto dalla fatica, intirizzito dal freddo, oppresso da pensieri dolorosi e da atroci sospetti, ma all'indomani uno sguardo di quegli occhi rasserenava il mio spirito, e scacciava le ombre dei cupi pensieri, come il sole che sorge scaccia le tenebre e ridona alla terra lo splendore e la vita.

      Tuttavia un dubbio funesto veniva sovente nella solitudine a colpirmi con dolorosi tormenti. Quella fanciulla che con uno sguardo accendeva nel mio cuore una fiamma celeste, che esaltava il mio spirito con ispirazioni sublimi, che mi parlava con l'arcano linguaggio degli occhi, sentiva essa all'unisono colla mia anima, riceveva essa da me le stesse impressioni?.. O m'ingannavo nel tradurre il sanscrito del cuore e i geroglifici della passione?.. Tale sospetto mi gettava nello sgomento, e mutava i rosei sogni della mia fantasia negli abissi della più cupa disperazione. Allora attendeva ansiosamente la ricomparsa di lei, per rileggere con raddoppiata attenzione in quegli occhi misteriosi, eppur tanto fatali. E immobile al balcone contava le ore che passavano lentamente, fino a che un lieve agitarsi di seriche tende annunziava la presenza della mia sfinge!

      Oh Dio, quali momenti!.. Essa guardava altrove, arrestava il suo sguardo sulla via, il mio cuore batteva tanto forte da rompermi il petto, se non lo avessi compresso colla mano, il dubbio terribile stava per diventare certezza, mi sentivo venir meno, e se fosse partita senza alzare lo sguardo, forse mi avrebbero trovato morto al mio posto. Ma essa volgeva la testa tranquillamente a diritta ed a manca, e a poco a poco mi passava davanti col suo sguardo profondo, rapido ma penetrante, che m'immergeva in un'estasi di amore e di delizie. Ah sì!.. quello sguardo era una espressione viva e sincera dell'anima, un'espressione che non aveva parole corrispondenti nell'umano linguaggio, era assai più soave d'un profumo, più armonioso d'una melodia, era un fluido supremo che m'invadeva, indefinito, indefinibile, sottile, impalpabile, ma positivo come la luce e l'elettrico.

      Quello sguardo mi rassicurava pienamente con effetto istantaneo, ma poi a poco a poco, a cagione di nuove reazioni, quella persuasione scemava colle ore che passavano, col sole che tramontava, col buio della notte che mette in dubbio ogni cosa. All'indomani nuova prova e nuovo trionfo, indi nuove lotte fra la speranza e la ragione, fra la fede ed il dubbio.

      Tali burrasche mi condussero alla primavera. Alla primavera ogni semente germoglia, sboccia ogni gemma, ogni pianta fiorisce, ogni cuore si espande. Una corrente invisibile attraversa la vita, l'agita, la suscita, la rinnova. Io mi sentiva scorrere il sangue per le vene con ardore inusitato. Le lotte interne del mio animo indicavano il bisogno d'una prova decisiva. Ma quale prova? un abboccamento era impossibile, un viglietto era pericoloso. Il ridicolo, la volgarità m'incutevano una ripugnanza insormontabile. Il mutuo linguaggio degli occhi esigeva una spiegazione discreta, corrispondente al mistero usato fino allora, senza imprudenze, nè audacie le quali rompessero la catena che legava segretamente due anime in celeste armonia.

      Ma una prova io la sentiva necessaria, inevitabile. Da essa doveva dipendere l'avvenire, cioè la vita o la morte.

      Pensai per molti giorni al modo più opportuno, e lo fissai d'accordo ai miei sogni orientali. Il linguaggio dei fiori m'offriva un mezzo analogo a quello degli occhi, ma più positivo e sicuro per interrogare l'oracolo. Io vedeva ogni giorno che la contessa Savina passeggiava per qualche istante nel giardino che fiancheggiava il suo palazzo e la strada. Mi decisi di procurarmi alcuni fiori, di farne un mazzetto, e di gettarlo ai suoi piedi, attendendo la mia sorte dal suo contegno. Se non mi amava, sarebbe passata oltre con disprezzo, e forse con isdegno, se mi amava avrebbe raccolto i miei fiori. Con tale determinazione mi recai da un giardiniere ed acquistai delle violette mammole e dell'eliotropio.

      Il mazzetto voleva dire: – modestia, vi amo con ebbrezza. Avrebbe essa inteso o indovinato il mio pensiero? era dubbio; ma in ogni caso i miei fiori avevano un significato evidente, e ciò bastava per darmi la prova del suo aggradimento o del suo disprezzo.

      Me ne tornavo a casa deciso di tentare la sorte, quando la Veronica mi venne incontro sulle scale annunziandomi che mio zio s'era messo a letto colla febbre. Deposi il mazzolino di fiori nella mia stanza, e corsi pel medico che condussi subito dal malato.

      Il dottore lo conosceva da molti anni, lo esaminò attentamente, e toccandogli il polso lo interrogò. Mio zio accusava una prostrazione di forze generale, e molte sofferenze nervose.

      – Monsignore ha forse ottemperato con troppo rigore ai digiuni quaresimali?

      Veronica dietro le tendine del letto dimenava la testa in segno negativo.

      Mio zio rispose che non potendo alterare le sue abitudini senza danno della salute, s'era sempre cibato col solito sistema.

      – Ma pure, – insinuava il dottore, – deve essere avvenuta qualche infrazione al metodo regolare di vita.

      – Sicuro, – rispose Veronica, – dopo cambiato l'orario del coro, Monsignore non è stato più bene.

      – È verissimo, – soggiunse il malato, trovandosi cambiata l'ora del vespro, ho dovuto alterare di conformità l'ora della messa, della colazione, del passeggio e del pranzo. Il ritardo del vespero ha perturbato l'ordine della mia vita e delle mie funzioni.

      – Ecco, ecco, – soggiunse il medico, – ecco scoperta la causa. Ripareremo facilmente allo sconcerto, ma bisogna assolutamente che Monsignore si decida a modificare il suo sistema di vita. Non va bene rendersi troppo schiavi delle proprie abitudini, perchè ad ogni fortuita alterazione s'arrischia di cadere malati. Monsignore ha bisogno d'esercizio all'aperto, all'aria ossigenata dei monti.

      Scrisse la ricetta, poi continuò:

      – Mi pare che Monsignore posseda un poderetto in Valtellina?

      – Oh, – rispose mio zio, – una casetta e pochi campi.

      – Benissimo. Nella prossima estate bisogna visitare la casetta e andare ai bagni di Bormio.

      – Sono tanti anni che non mi muovo da Milano…

      – E appunto per questo bisogna rompere le abitudini troppo regolari, per ristabilire le forze. Monsignore non è vecchio, ma la vita sedentaria rende flosci, e ci apparecchia una vecchiaia precoce e piena di sofferenze. Monsignore vada ogni anno a prendere i bagni, si muova, respiri l'aria pura dei monti…

      – Vedremo, vedremo, – rispondeva mio zio.

      Il dottore avendo date le sue istruzioni alla Veronica, raccomandò al malato la quiete, e partì, ma le sue idee avevano sconvolto la casa. Mio zio al solo pensiero d'un viaggio provò una recrudescenza

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