Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2. Giovanni Boccaccio

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - Giovanni Boccaccio

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si mise», procedendo, «e cosí mi feʼ entrare», seguendolo io, «Nel primo cerchio», cioè nel limbo, «che lʼAbisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.

      «Quivi», in quel primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea comprendere, «Non avea pianto mai», cioè dʼaltro, «che di sospiri». È il sospiro una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato, il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se cosí non facesse, potrebbe lʼangoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi e tanto gonfiare dʼintorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá dellʼangoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che lʼaura eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è «aura» un soave movimento dʼaere: per questa cagione non credo voglia dire il testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in inferno, anzi vʼè ogni moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire «aere eterno»), «facevan», glʼimpeti deʼ sospiri, «tremare», cioè avere un movimento non maggiore che il tremare.

      «E ciò avvenía», cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non eran dunque quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il quale si causava dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza di Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere avuto battesimo, come appresso si dice. «Che avean le turbe», cioè moltitudini, «chʼeran grandi, Dʼinfanti», cioè di pargoli, li quali «infanti» si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad etá che perfettamente potesson parlare (e questa è lʼuna delle due maniere di genti, delle quali dissi che lʼautor trattava in questa parte), «e di femmine e di viri», cioè dʼuomini (e questa è lʼaltra maniera, in tanto dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta). [Li quali una medesima cosa direi loro essere e glʼinfanti, se quella copula, la quale vi pone quando dice: «Dʼinfanti e di femmine e di viri», non mi togliesse da questa opinione. E la ragion che mi moverebbe sarebbe questa; percioché io non estimo che da creder sia, quantunque nella presente vita glʼinfanti in tenerissima etá morissono, che essi sieno, al supplicio, in quella etá, cioè in quello poco o nullo conoscimento; anzi credo sia da credere loro essere in quello intero conoscimento che è qualunque degli altri, che piú attempati morirono: la qual perfezione del conoscimento credo sia lor data in tormento e in noia, e non in alcuna consolazione, come a noi mortali, quando bene usare il vogliamo, è conceduto.]

      «Lo buon maestro», cioè Virgilio (il quale in questa parte, per ammaestrarlo che domandar dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da doverne meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare; percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio tanto pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non grave fosse a Virgilio lʼessere domandato, per che poi dʼalcuna cosa domandato non lʼavea) «a me» disse: – «Tu non dimandi, Che spiriti son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si dolgono. Ed appresso fa come il buon maestro dee fare, il quale, vedendo quello di che meritamente può dubitare il suo auditore, gli si fa incontro, col farlo chiaro di ciò che lʼuditore addomandar dovea, e dice: «Or voʼ che sappi, avanti che piú andi, Chʼeʼ non peccâro», questi spiriti che tu vedi qui; «e sʼegli hanno mercedi», cioè se essi adoperarono alcun bene il quale meritasse guiderdone, «Non basta», cioè non è questo bene avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione è, «perchʼeʼ non ebber battesmo». E questo nʼè assai manifesto per lo Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «Amen, amen, dico tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest intrare in regnum Dei». È adunque il battesimo una regenerazion nuova, per la quale si toglie via il peccato originale, del quale tutti, nascendo, siamo maculati, e divegnamo per quello figliuoli di Dio, dove davanti eravamo figliuoli delle tenebre; e fa questo sacramento valevoli le nostre buone operazioni alla nostra salute, dove senza esso son tutte perdute, sí come qui afferma lʼautore. «Chʼè parte della fede, che tu credi», cioè della fede cattolica; e però dice che è «parte» di quella, percioché gli articoli della fede son dodici, deʼ quali dodici è il battesimo uno.

      Appresso questo risponde Virgilio ad una questione, la quale esso medesimo muove, dicendo: «E se pur fûr», costoro deʼ quali noi parliamo, «dinanzi al cristianesmo», cioè avanti che Cristo per le sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e mostrasse il battesimo essere necessario a volere aver vita eterna; perciò son perduti, perché «Non adorar debitamente Iddio». E in tanto non lʼadoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono deʼ comandamenti dati da lui al popol suo, neʼ quali, ben intesi, stava la salute di coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e onorato. «E di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo furono, «son io medesmo»: percioché Virgilio, si come in libro Temporum dʼEusebio si comprende, avanti la predicazion di Cristo e il battesimo da lui introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni; [né della venuta di Cristo nella Vergine, per quello che comprender si possa, sentí alcuna cosa: come che santo Augustino, in un sermone Della nativitá di Cristo, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata neʼ versi scritti nella quarta egloga della sua Buccolica, dove dice:

      Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:

      magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.

      Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:

      iam nova progenies caelo delabitur alto.

      Deʼ quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere santo Augustino; e, se pure son di quegli che ʼl sentono (e per avventura santo Augustino medesimo), non credono lui avere inteso quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al popolo giudaico disse, per Cristo giá preso da loro, che «bisognava che uno morisse per lo popolo, accioché tutta la gente non perisse». Non adunque sentí Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti al cristianesmo salvarsi.]

      «Per tai difetti», cioè per cose omesse, non per cose commesse, o vogliam dire per non avere avuto battesimo e per non aver debitamente adorato Iddio; «e non per altro rio», cioè per avere contro alle morali o naturali leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere in perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme vivemo in disio»: – il quale disio non è altro che di vedere Iddio, nel quale consiste la gloria deʼ beati. E come che molto faticosa cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e noia importabile lʼardentemente disiderare e non conoscere né avere speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e perciò, quantunque prima facie paia non molto gravosa pena essere il disiderare senza sperare, io credo chʼella sia gravissima; e ancora piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna intermissione. «Gran duol mi prese al cuor quando lʼintesi», sí per Virgilio, e sí ancora «Peroché gente di molto valore», stati intorno agli esercizi temporali, «Conobbi», non qui, ma nel processo, quando coʼ cinque savi entrò nel castello sette volte cerchiato dʼalte mura, «che in quel limbo», cioè in quello cerchio superiore, vicino alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono segnati i segni del zodiaco e i gradi di quegli, «limbo»; dal quale per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio, percioché quasi immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra), «eran sospesi», dallʼardore del lor desiderio.

      – «Dimmi, maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella della prima parte della seconda division principale, nella quale lʼautore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice adunque: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore». – Assai lʼonora lʼautore per farselo benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che fatto non avea alla dimanda fattagli nel precedente canto: dopo la quale alcuna altra,

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