Ottavia. Alfieri Vittorio
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qual piú securo? e qual deserta piaggia
remota è sí, che t'allontani troppo
da lei, che darsi il folle vanto ardisce
d'averti dato il trono?
Ner.
Or, finché tolto
del tutto il poter nuocermi le venga,
stanza piú assai per me secura ell'abbia
Roma, e la reggia mia.
Poppea
Che ascolto? In Roma
Ottavia riede!
Ner.
A mie ragion dá loco…
Poppea
Ove son io, colei?..
Ner.
Deh! m'odi…
Poppea
Intendo;
ben veggo;… io tosto sgombrerò…
Ner.
Deh! m'odi:
Ottavia in Roma a danno tuo non torna;
a suo danno bensí…
Poppea
Vedrai tu tosto,
ch'ella vi torna al tuo. Ti dico intanto,
che Ottavia e me, vive ad un tempo entrambe,
non che una reggia, una cittá non cape.
Rieda pur ella, che Neron sul seggio
locò del mondo; ella a cacciarnel venga.
Di te mi duol, non di me no, ch'io presso
d'Otton mio fido a ritornar son presta
Amommi ei molto, e ancor non poco ei m'ama:
potess'io pur quell'amator sí fermo
riamare! Ma il cor Poppea non seppe
divider mai; né vuole ella il tuo core
con l'abborrita sua rival diviso.
Non del tuo trono, io sol di te fui presa,
ahi lassa! e il sono: a me lusinga dolce
era l'amor, non del signor del mondo,
ma dell'amato mio Neron: se in parte
a me ti togli; se in tuo cor sovrana,
sola non regno, al tutto io cedo, al tutto
io n'esco. Ahi lassa! dal mio cor potessi
appien cosí strappar la immagin tua,
come da te svellermi spero!..
Ner.
Io t'amo,
Poppea, tu il sai: di quale amor, tel dica
quant'io giá fei; quanto a piú far mi appresto.
Ma tu…
Poppea
Che vuoi? poss'io vederti al fianco
quell'odíosa donna, e viver pure?
poss'io né pur pensarvi? Ahi donna indegna!
che amar Neron, né può, né sa, né vuole;
e sí pur finger l'osa.
Ner.
Il cor, la mente
acqueta; in bando ogni timor geloso
caccia: ma il voler mio rispetta a un tempo.
Esser non può, ch'ella per or non rieda.
Giá mosso ha il piè ver Roma: il dí novello
quí scorgeralla. Il vuol la tua non meno,
che la mia securtá: che piú? s'io 'l voglio;
io non uso a trovare ostacol mai
a' miei disegni. – Io non mi appago, o donna,
d'amar, qual mostri, d'ogni tema ignudo.
Chi me piú teme ed obbedisce, sappi,
ch'ei m'ama piú.
Poppea
… Troppo mi rende ardita
il temer troppo. Oh qual puoi farmi immenso
danno! il tuo amor tu mi puoi torre… Ah! pria
mia vita prendi: assai minor fia il danno.
Ner.
Poppea, deh! cessa: nel mio amor ti affida.
Mai non temer della mia fede: al mio
voler bensí temi d'opporti. Abborro,
io piú che tu, colei che rival nomi.
Da' suoi torbidi amici appien disgiunta,
quí di mie guardie cinta la vedrai,
non tua rival, ma vil tua ancella: e in breve,
s'io del regnar l'arte pur nulla intendo,
ella stessa di se palma daratti.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Poppea
Comun periglio oggi corriam; noi dunque
oggi cercare, o Tigellin, dobbiamo
comun riparo.
Tigel.
E che? d'Ottavia temi?..
Poppea
Non la beltá per certo; ognor la mia
prevalse agli occhi di Nerone: io temo
il finto amor, la finta sua dolcezza;
l'arti temo di Seneca, e sue grida;
e della plebe gl'impeti; e i rimorsi
dello stesso Nerone.
Tigel.
Ei da gran tempo
t'ama, e tu nol conosci? Il suo rimorso
è il nuocer poco. – Or, credi, a piú compiuta
vendetta ei tragge Ottavia in Roma. Lascia
ch'opri in lui quel suo innato rancor cupo,
giunto al rio nuziale odio primiero.
Questo è il riparo al comun nostro danno.
Poppea
Securo stai? non io cosí. – Ma il franco
tuo parlar mi fa dire. Appien conosco
Nerone, in cui nulla il rimorso puote:
ma il timor, di', tutto non puote in lui?
Chi nol vide tremar dell'abborrita
madre? di me tutto egli ardea; pur farmi
sua