Le Regole Del Paradiso. Joey Gianvincenzi

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Le Regole Del Paradiso - Joey Gianvincenzi

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io. Ginger…”

      â€œGinger ha lavorato stanotte al contrario di te, stronza! Come osi tirarla in ballo?” disse alzando la voce e sbattendo con forza il pugno sulla tavola. “Non ti permetto di provare ad accusarla! Hai capito bene?”

      Jane annuì rassegnata.

      Il pranzo proseguì in un pesante silenzio. Avrebbe voluto scusarsi, ma sarebbe stato inutile. Per un attimo pensò addirittura di raccontare com’era andata la giornata a scuola per cercare di alleggerire quell’atmosfera tesa che in casa regnava perennemente, ma nessuno l’avrebbe degnata delle giuste attenzioni, quindi rinunciò. Non ci si poteva parlare di niente, ecco perché teneva aggiornato il diario dalla copertina rosa che portava sempre con sé al liceo (e che di notte nascondeva tra i libri di testo che teneva nell’armadio), su cui scriveva ogni suo pensiero, ogni avvenimento degno di nota come le riflessioni, i desideri e i sogni.

      Quel diario, testimone da sempre delle sue emozioni più profonde, non avrebbe rivelato le sue parole ad anima viva nonostante le avesse tatuate sul voluminoso corpo di carta. Guardava Jane china su di lui con gli occhi azzurri socchiusi, intenti a controllare la punta a sfera della penna che si muoveva velocissima tra le sue righe perfette; aveva l’onore di essere l’unico a sapere i piaceri desiderati e le mancanze collezionate che modellavano la vita di Jane insieme ai rari sorrisi che riuscivano a baciare le sue labbra dopo aver scalato montagne di malinconia.

      Quando aveva voglia di dare vita a quello che non avrebbe mai voluto dimenticare, inforcava la penna e iniziava a scrivere, rendendo concreto ogni pensiero che come un fantasma girava ansioso nella sua mente: in quel modo lo imprigionava tra le righe del suo diario segreto.

      Analizzare quello che la preoccupava di più, una volta scritto, sembrava fargli perdere parte della sua forza negativa; scrivere su quel diario la aiutava a fronteggiare meglio le sfide quotidiane e scacciare via, per quanto possibile, il male di cui erano macchiati i suoi giorni.

      * * *

      Come sempre fu la prima a entrare in aula; l’atmosfera che aleggiava tra i banchi, resa languida dall’ora mattutina e impalpabile dall’assenza di tutti i compagni che presto l’avrebbero invasa, donava alla ragazza un prezioso momento di tranquillità in cui poter fare un bel respiro e prepararsi alla lunga giornata che l’aspettava. Quando, infatti, arrivarono gli altri, quell’adorabile atmosfera sparì di getto rendendola, ormai, nient’altro che un miraggio appena impresso nella memoria.

      La lezione di arte era iniziata da poco quando la professoressa disse alla classe che si sarebbe assentata per un momento. E il suo momento, di solito, non era meno di quaranta minuti. Non appena abbandonò l’aula, ognuno prese a fare qualcosa. Jane tirò fuori il suo quaderno dalla copertina rosa e buttò giù qualche riga.

      Caro diario,

      la lezione di arte è appena saltata e questo non mi piace: sai solo tu che il mio grande sogno è fare la pittrice.

      Ad ogni modo mi sento spaesata e fuori luogo. Di tutte queste persone non riesco a trovarne una con la quale condividere quello che mi accade, qualcuno che mi capisca, che esca con me o che almeno mi saluti affettuosamente senza che poi venga a chiedermi di passare gli appunti che prendo durante le spiegazioni... Voglio mia madre. Anzi, rivoglio mia madre. Chiederei a Dio in persona di farmela avere almeno per un’ora, non chiedo altro. Questa vita è un inferno, con lei sarebbe diverso.

      Mi basterebbe solo un’ora.

      Dio, una sola ora.

      Jane M.

      La mano tremò leggermente e le si appannarono appena gli occhi; li strizzò e con la manica della felpa cercò di asciugarseli. Sua madre, Grace, era morta in un bruttissimo incidente quando lei era ancora troppo piccola per realizzare il tutto. In casa non si parlò mai dell’accaduto, tranne la prima e l’ultima volta in cui il padre la informò di come stavano le cose. Tua madre è morta in un incidente stradale, fu la sola spiegazione che ricevette quando iniziò a domandare insistentemente di lei.

      Uscì dall’aula sospirando, si diresse verso il bagno e, quando spalancò la porta, trovò due ragazze che si stavano baciando.

      â€œChe cazzo ti guardi, puttanella?” disse una interrompendo il bacio. La ragazza che parlò aveva soltanto una cresta di capelli rossi simile a quella di una gallina, al centro della testa, alta almeno trenta centimetri. Il resto del cranio era accuratamente rasato. In faccia aveva tre piercing e le braccia piene di tatuaggi. La sua amichetta non era da meno.

      Jane abbassò lo sguardo, si diresse verso il lavandino e si sciacquò le mani sotto il gelido flusso d’acqua. Le ragazze continuarono a baciarsi indisturbate. Jane si asciugò le mani sui jeans e uscì: non si era ancora abituata, ma scene come quelle non erano insolite. Attraversando poi il corridoio per rientrare in classe si accorse che la porta della grande aula di musica era socchiusa e la cosa la lasciò più sorpresa rispetto al bacio tra le studentesse a cui aveva appena assistito: da quando studiava in quel liceo non era mai riuscita a vedere cosa ci fosse all’interno della stanza, dato che la porta rimaneva sempre rigorosamente chiusa. Nessuno poteva metterci piede, tolti la professoressa nonché musicista di fama mondiale Sarah Kattabel e i pochi allievi che ci suonavano. Anche se Jane moriva dalla voglia di varcare quella soglia e curiosare all’interno della famigerata stanza, non si azzardò a entrare. Un tempo non era così: potevano accedere tutti per assistere alle lezioni oppure alle lunghe prove che facevano gli alunni alcuni mesi prima del consueto concorso che si svolgeva poco dopo il rientro dalle vacanze natalizie. Anche se non straripava di iscritti, la possibilità di segnarsi al corso pomeridiano e quindi di partecipare al concorso era sempre stata concessa a tutti. Dopo il gran casino le cose cambiarono: una notte un paio di ragazzi riuscirono a entrare nella sala e le diedero fuoco. Scelsero proprio l’aula di musica perché c’erano sedie di legno, montagne di spartiti, pianoforti, altri strumenti in legno come i violini, le chitarre, quindi le fiamme si sarebbero moltiplicate più facilmente e il liceo, secondo loro, sarebbe andato distrutto. Dopo l’accaduto i dirigenti scolastici decisero di spendere una fortuna per ricostruire l’intera sala e ristrutturare gran parte dell’istituto. Quelle furono le ultime mosse disperate per cercare di restituire credibilità al liceo, ma ormai la brutta fama gli era piombata addosso e sarebbe stato difficile cancellarla.

      Oltre che ricostruirla di nuovo, i dirigenti pensarono bene di vietare la sala ai ‘non autorizzati’ così da renderla più sicura e restituire l’immagine di un posto dove si dovevano seguire delle regole per mantenere sempre alto l’ordine. Tutto questo funzionò esclusivamente per la sala di musica, mentre il resto continuava ad andare sempre peggio.

      * * *

      Era difficile capire quel liceo.

      Alcuni giorni teppisti e prede sembravano farsi la guerra solo scambiandosi occhiatacce e si limitavano, se proprio non si tolleravano, a qualche sopportabile spallata. In altri giorni invece la situazione si presentava con un’altra terribile faccia. Le guerre con gli sguardi si trasformavano in guerre di pugni, calci, sangue e grida. C’erano volte in cui la litigata finiva solo con qualche dente rotto, altre in cui qualcuno ci rimetteva una spalla, altre ancora si rischiava direttamente di morire come era successo qualche anno prima al preside, accoltellato; i giornali locali non facevano altro che utilizzare ingenti quantità d’inchiostro per raccontare quello che era successo per l’ennesima volta nel Liceo Maledetto, così soprannominato dai cittadini che lo conoscevano, o nel Liceo del Degrado, per usare l’espressione

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