Sola di fronte al Leone. Simone Arnold-Liebster

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Sola di fronte al Leone - Simone Arnold-Liebster

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ascoltami bene!”, mi avvertì. “Oggi ho dovuto chiamarti di nuovo tre volte. Che cosa penserà la gente? Che la figlia della signora Arnold è una bambina disubbidiente e che la sua mamma è troppo tollerante con lei e non riesce a farsi rispettare!” Con uno sguardo severo e la fronte corrugata sottolineò, scandendo bene le parole: “Se domani dovesse succedere di nuovo, dovremo riservarti la stessa punizione data a Brumel, la mucca ribelle”. Dopo un silenzio interminabile aggiunse: “Guai a te se devo chiamarti ancora tre volte!”

      Ero avvilita e abbassai la testa. La mamma mi avrebbe veramente trattata come Brumel? Non mi aveva mai sculacciata prima e nemmeno il papà, ma sapevo che ne aveva il diritto. Avrebbe potuto attuare la sua minaccia.

      Una cosa era certa: la mamma aveva un’espressione veramente seria. Ubbidire divenne improvvisamente una questione di capitale importanza. Adesso ero grande, in fondo avevo già sei anni! Così, quando sarebbe arrivata la chiamata per la cena, avrei dovuto essere pronta a rientrare.

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      Il giorno dopo, nel sentire la mamma mi affrettai a raccogliere i giocattoli sparpagliati qua e là. Al secondo richiamo mi precipitai verso casa, ma in quel momento una delle bambine che correva davanti a me, cadde e si sbucciò i gomiti. Ci mettemmo a piangere tutt’e due. La mamma insisté per la terza volta. Terrorizzata, lasciai lì l’amichetta e salii le scale di corsa. La porta dell’appartamento era aperta e vidi una racchetta da ping-pong sul mio letto. Mi sentii mancare. Prima che mi rendessi conto della situazione la mamma mi afferrò per il maglione, mi trascinò in cameretta, mi buttò sul letto, mi abbassò le mutandine e, senza una parola, mi diede una bella sculacciata. Poi uscì dicendo: “Quando avrai finito di piangere, potrai venire a mangiare la tua zuppa. Se aspetterai troppo si raffredderà”. Nascosi la faccia nel copriletto e piansi a dirotto. Il peggio era la vergogna del mio sedere all’aria. Ero anche amareggiata, perché la mamma non sapeva che io ero stata pronta a ubbidire!

      Il campanello della porta di entrata squillò. Era il signor Eguemann: esigeva che fossi punita in sua presenza, perché secondo lui avevo urtato la sua nipotina. Ero spaventata a morte, ma la mamma rispose con voce ferma: “Signor Eguemann, la punizione di mia figlia è affar mio, non vostro!”

      “Allora sarà meglio che vostra figlia non giochi più con le mie nipotine!”, concluse in tono minaccioso.

      Finalmente la mamma intuì ciò che era successo e capì perché non avevo risposto subito quando mi aveva chiamata per la cena. Entrò piano piano nella mia cameretta, mi rigirò teneramente verso di lei e si sedette accanto a me sul letto.

      “Mi dispiace di essermi sbagliata. Mi si spezza il cuore. Mi perdoni?”

      Mia madre che mi domandava di esser perdonata! Le mie lacrime si asciugarono all’istante! “Vieni a mangiare la tua zuppa, te la riscaldo”. Anche se il mio sederino bruciava ancora, mi sentivo molto meglio. E, visto che il papà era ancora al lavoro, avevo la mamma tutta per me.

      Dopo cena la mamma mi dedicava sempre tutto il suo tempo. Mi invitava nella stanzetta che i miei genitori chiamavano con orgoglio “il salotto”. C’era appena lo spazio sufficiente per il divano verde, la poltrona e il tavolino a forma di mezzaluna accostato al muro. Una grossa lampada col paralume di seta arancione, confezionato dalla mamma stessa, diffondeva nella stanza una luce calda che sapeva di tramonto. La porta era stata rimossa per poter installare una stufa nell’angolo sinistro del locale. A fianco c’era un ripiano sul quale erano appoggiati una radio e un mappamondo. Lo specchio appeso in corridoio sopra una mensolina, rifletteva il mazzo di dalie, la porta finestra del balcone e la lampada; così il nostro salottino sembrava due volte più grande. Zita amava accucciarsi dove il papà metteva di solito i piedi mentre leggeva o “viaggiava” facendo ruotare il mappamondo.

      Che giornata! Avevo imparato l’importanza dell’ubbidienza e del rispetto. La mamma mi aveva anche insegnato l’umiltà: aveva riconosciuto il suo errore e mi aveva chiesto scusa. Fu una di quelle lezioni che si sarebbero rivelate di grande valore nella mia vita futura.

      Mi sentii pienamente soddisfatta quando quella sera, china sul mio letto, la mamma mi rimboccò le coperte. Lo sguardo profondo dei suoi occhi blu, il tenero bacio e le sue ultime parole – le prime parole in inglese che io imparai – “Good night, my darling”, furono il punto finale di quel giorno indimenticabile.

      ♠♠♠

      1° ottobre 1936

      La fresca brezza mattutina mi aiutò a tenere aperti gli occhi ancora assonnati. Era il primo giorno alla scuola femminile e, anche se conoscevo bene la strada per raggiungerla, la mamma mi dovette accompagnare. L’edificio, una costruzione in pietra rosa a tre piani, si trovava accanto alla chiesa. Ci fecero radunare davanti alla scalinata. In cima, sul gradino più in alto, troneggiavano la direttrice e la maestra che aveva in mano una lista. Solo poche ragazze possedevano una cartella nuova di zecca. Quando avevamo comprato la mia, la mamma aveva detto: “Il cuoio deve essere di buona qualità, perché la cartella dovrà durare per i prossimi otto anni”.

      “Le lezioni si terranno dalle 8.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 16.00 eccetto il giovedì, che resterà libero”, si leggeva nel regolamento. “Ogni allieva dovrà munirsi di cartella da portare in spalla e di una lavagnetta alla quale saranno attaccati, mediante una cordicella, uno straccetto asciutto e una spugna umida. Dovrà indossare un grembiule a maniche lunghe abbottonato sulla schiena, abbastanza ampio da coprire l’intero vestito e avrà sul davanti due tasche, una delle quali conterrà un fazzoletto. Il grembiule resterà a scuola per l’intera settimana, ma ogni sabato sarà riportato a casa per essere lavato e stirato”. Sotto le mani di fata di mia madre presero forma un grembiulino rosa, uno azzurro e uno verde acqua: l’ennesimo prodigio con la sua macchina da cucire. E perché potessero “crescere” con me almeno per i prossimi due anni, la mamma aveva lasciato i vivagni e gli orli dei miei grembiuli abbastanza larghi.

      “Simone Arnold!” Fui la prima a essere chiamata. Avanzai di un passo in direzione della signorina e alzai lo sguardo su di lei, cominciando dagli stivaletti e proseguendo verso l’alto lungo il suo vestito grigio. Aveva un aspetto imponente, come quello della madre del papà sulle fotografie del nostro album di famiglia. Il colletto di pizzo bianco e i capelli di un grigio cenere, legati all’indietro, facevano apparire il suo volto rotondo come una luna piena. Dietro i cerchi degli occhiali i suoi occhi blu acciaio mi ricordavano quelli di mia madre. Da ognuno dei porri che punteggiavano il suo viso usciva un pelo, proprio come quelli di zia Eugénie. Era una signora attempata come la nonna Maria, però esternava la stessa autorità del papà! Mi sentii perfettamente a mio agio, poiché in lei vedevo l’insieme dei tratti di coloro che amavo.

      La signorina mi assegnò il posto accanto a Frida. “Questo banco è ancora abbastanza nuovo e non ha nessuna macchia di inchiostro. Visto che sei fra le più piccole, siediti qui in seconda fila”. Capii subito che avevo la sua approvazione. Quel primo giorno volò.

      Nella mia via abitavano quattro mie compagne di classe. Al rientro da scuola passavamo prima dalla casa di Frida, poi dalla mia palazzina, mentre Andrée, Blanche e Madeleine vivevano un po’ più lontano. Frida tremava continuamente come una foglia di pioppo. Sentivo di doverla proteggere. Era molto gracile. Con i capelli biondi, la pelle diafana, le guancette rosee e le occhiaie nere sotto gli occhi brillanti sembrava particolarmente fragile.

      “I bambini con grembiuli grigi oppure blu scuro vengono da famiglie povere”, mi aveva spiegato la mamma. Quelli di Frida non solo erano blu, ma anche senza forma e rattoppati e la sua cartella era logora.

      Noi cinque andavamo a scuola tutte insieme: percorrevamo la Rue de la Mer Rouge per circa un chilometro. Dopo una prima curva giungevamo alla stazione ferroviaria, procedevamo lungo

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