Delitti Esoterici. Stefano Vignaroli
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DELITTI ESOTERICI
Stefano Vignaroli
La prima indagine del Commissario Caterina Ruggeri
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PROLOGO
Estate 1989
Confine tra Nepal e Repubblica Popolare Cinese
Quando gli Sherpa giunsero in prossimità dell'ennesimo ponte sospeso, in uno stentato inglese, spiegarono alle due donne, che li avevano assoldati a Kathmandu, che non sarebbero mai andati oltre quel punto. A loro non era consentito sfidare le proprie divinità, avevano troppa paura. Nessuno di loro si era mai avventurato oltre quel ponte e chi, in passato, aveva osato farlo, non era mai più ritornato. Se le donne avessero voluto proseguire, lo avrebbero fatto a loro rischio e pericolo. Avrebbero lasciato loro lo stretto indispensabile da portare in spalla negli zaini, alcuni viveri, delle tavolette di cioccolato, un fornelletto da campeggio e la leggera tenda biposto a igloo. Loro sarebbero rimasti tre giorni, non di più, ad aspettarle.
La giornata era tersa, l'aria rarefatta dei quasi quattromila metri di quota donava al cielo un colore azzurro intenso, e le vette delle montagne più alte della Terra sfidavano, con le loro guglie innevate, lo stesso cielo limpido. Aurora e Larìs avevano sfilato le calde giacche a vento in goretex, che le avevano fino allora protette dalle improvvise bufere di neve, spesso affrontate durante i cinque giorni precedenti. Il loro scopo non era certo quello di provare l'ebbrezza di una vacanza estrema, bensì quello di raggiungere il Tempio della Conoscenza e della Rigenerazione, per incontrare il Grande Patriarca. Avrebbero potuto attingere al sapere universale conservato al tempio e divenire così adepte del livello più alto della setta. Sapevano già che, da quel punto in avanti, avrebbero dovuto proseguire da sole, affidandosi al loro intuito e ai loro poteri. Se avessero fallito, se avessero sbagliato strada, sarebbe stato impossibile per loro salvarsi. Avrebbero solo trovato la morte tra quelle montagne. Aurora pagò il pattuito al capo Sherpa dicendogli che, se voleva, se ne poteva andare anche subito. Ma l'uomo dai lineamenti asiatici, che reggeva le redini di un lama, scosse la testa e ripeté: «Three days.»
Scaldò un tè forte per le due donne e le congedò, salutandole con un cenno della mano. L'anziana e la sua giovane amica issarono gli zaini in spalla e si avventurarono sul ponte, sospeso sopra un abisso di almeno ottocento metri di altezza.
CAPITOLO I
Caterina Ruggeri
La voce del comandante dell'aereo che avvertiva i passeggeri dell'ormai imminente atterraggio mi riportò alla realtà. Solo un'ora di volo da Ancona a Genova, ma la mia mente era stata impegnata in un turbinio di pensieri. I fatti degli ultimi giorni avevano portato la mia vita a una svolta. Pensavo al mio passato e pensavo al mio futuro. Ora avevo un incarico importante, ero stata nominata commissario a Imperia e non avrei mai creduto che questa nomina arrivasse così presto. Come responsabile delle Unità cinofile della Polizia di Stato presso l'aeroporto Raffaello Sanzio di Ancona avevo trascorso anni entusiasmanti. Avevo avuto la possibilità di realizzarmi in ciò che mi era sempre piaciuto fin dalla tenera età, lavorare con i cani della polizia e addestrarli, dai cani antidroga a quelli per il soccorso nelle macerie, dai cani antisommossa a quelli cosiddetti molecolari, adatti alla ricerca di tracce e persone scomparse. D'altro canto, oltre a essere impegnata in un lavoro che mi piaceva moltissimo, avevo avuto anche il tempo di dedicarmi allo studio e laurearmi in Giurisprudenza, specializzarmi in Criminologia e sperare nell'agognato avanzamento di carriera.
Di sicuro la passione per i cani non l'avrei mai abbandonata, quella passione che mi era stata trasmessa da un mio cugino veterinario, Stefano, ora cinquantenne, direttore sanitario della Clinica Veterinaria Aesis. Stefano era stato sempre il mio segreto amore, fin da ragazzina. Mio cugino di secondo grado, dodici anni più grande di me, mi aveva sempre attratto in maniera particolare. Il ricordo di un Ferragosto di venticinque anni prima era sempre vivo nella mia memoria. Allora ero poco più che una bambina, avevo frequentato la seconda media e dovevo ancora compiere tredici anni, mentre lui si era da poco laureato in Veterinaria a Perugia.
Ero in vacanza con la mia famiglia, il papà, la mamma e i miei due fratellini gemelli, Alfonso e Stella, in un'amena località dei Monti Sibillini, a 1.400 metri di quota. Mio padre, patito di vacanze alternative, non ci avrebbe mai portato in vacanza in albergo, e quindi usufruivamo del nuovissimo carrello tenda, da lui appena acquistato.
La mia famiglia e quella di Stefano erano molto unite. Il mio cugino ci aveva raggiunti di buon mattino, insieme alle sue due sorelle e sua madre, per trascorrere insieme a noi il Ferragosto. La giornata si presentava già splendida, serena, limpida, senza nuvole in cielo. L'aria frizzante della montagna ispirava una bella camminata e così decidemmo di raggiungere un rifugio distante un'ora e mezzo di cammino dal luogo in cui eravamo accampati. Da lì, un'altra mezz'ora di salita impegnativa permetteva di raggiungere una cima denominata Pizzo Tre Vescovi. Per tutto il percorso avevo ignorato la mia cuginetta coetanea, cercando di rimanere il più vicino possibile a Stefano e conversare con lui. Mi aveva parlato dell'Università, dei suoi progetti attuali e futuri, del come e del perché di recente avesse lasciato la sua fidanzata, con cui aveva condiviso oltre cinque anni di vita. Io e Stefano eravamo i più appassionati di montagna e i più temprati alla fatica fisica, così, giunti al rifugio, mentre gli altri avevano deciso di riposarsi e dedicarsi alla raccolta di mirtilli e lamponi, noi due avevamo prolungato l'escursione fino in vetta. Mio padre ci aveva accordato di ritrovarci al campo per pranzo entro l'una. Con un gesto un po' infantile ma mirato, avevo preso Stefano per mano e mi ero avviata con lui su per il sentiero scosceso e faticoso. Lo spettacolo in vetta aveva ripagato la fatica per arrivarvi. In una giornata così limpida si poteva scorrere lo sguardo dai monti dell'Umbria verso Ovest, al Mar Adriatico verso Est, dai monti del Pesarese verso Nord, alla sagoma massiccia del Monte Vettore verso Sud, che chiudeva l'orizzonte e impediva di gettare lo sguardo verso i monti della Laga e l'Abruzzo.
Osservavo il panorama, ma soprattutto guardavo i meravigliosi occhi verdi di Stefano, che mi indicava i nomi delle varie montagne che riusciva a riconoscere. Più lo osservavo e lo ascoltavo, più mi sentivo attratta da lui, che aveva un viso simpatico, ornato da una leggera barba, i capelli folti e scuri e due occhi che a me piacevano in una maniera incredibile. Essendo poco più che una bambina, non sapevo di preciso cosa significasse innamorarsi, ma in quei momenti capivo che stavo provando delle sensazioni nuove e che forse, per la prima volta, ero caduta vittima di questo strano sentimento.
Eravamo ridiscesi sempre conversando e scherzando, e avevamo raggiunto il resto della compagnia, giusto in tempo per il pranzo preparato da mia madre, un'ottima amatriciana, accompagnata da salsicce alla brace e, per finire, i lamponi raccolti da fratelli e cugine durante l'escursione. Al termine del pasto avevo proposto a Stefano di sdraiarci al sole. Avevo recuperato un plaid e ci eravamo allontanati un po', fuori dalla vista degli altri. Mi ero sfilata maglietta e jeans ed ero rimasta con un bikini rosa, appena sufficiente a coprire i miei seni ancora immaturi. Anche lui si era liberato della maglietta. Ci eravamo sdraiati l'uno accanto all'altra, godendo del sole pomeridiano che riscaldava la pelle. A un certo punto, mi ero girata verso di lui e avevo premuto i miei piccoli seni contro il suo torace.
«Insegnami come si bacia un ragazzo!»
Lui mi aveva guardato con aria interrogativa, ma io, affatto intimorita, avevo avvicinato il mio viso al suo, socchiudendo gli occhi. Avevo percepito le sue labbra unirsi alle mie e, per un attimo, ero andata in estasi. Non so quanto fosse durato, credo pochi attimi. Quando Stefano si era reso conto di ciò che faceva si era arrestato e, sia pur in maniera delicata e forse a malincuore, mi