L'umorismo. Luigi Pirandello

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L'umorismo - Luigi Pirandello

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la famosa teoria del grottesco, di fronte a Vulcano, a Polifemo, a Sileno, ai tritoni, ai satiri, ai ciclopi, alle sirene, alle furie, alle Parche, alle arpie, al Tersite omerico, alle dramatis personae delle commedie aristofanesche.

      D'altra parte, nessuno più si sogna di negare che anch'essi gli antichi avessero l'idea della profonda infelicità degli uomini. La espressero, del resto, chiaramente filosofi e poeti. Ma, al solito, anche tra il dolore antico e il dolore moderno si è voluto vedere da alcuni una differenza quasi sostanziale, e si è sostenuto che vi è una lugubre progressione nel dolore, svolgentesi con la storia stessa della civiltà, una progressione che ha fondamento nella sensibilità dell'umana coscienza, sempre più delicata, e nell'irritabilità e nella incontentabilità di essa di mano in mano sempre maggiori.

      Ma questo lo aveva già detto, se non c'inganniamo, fin dal tempo dei tempi, Salomone. Accrescimento di scienza, accrescimento di dolore. E aveva proprio ragione, fin dal tempo dei tempi, Salomone? Sta a vedere. Se le passioni, quanto più si afforzano e si affinano, tanto più acquistano una specie d'attrazione e di compenetrazione scambievole; se con l'ajuto della fantasia e dei sensi noi ci inoltriamo, come dicono, in un «processo d'universalizzazione» che si fa sempre più rapido e sempre più invadente, sicchè in un dolore ci par di sentire più dolori, tutti i dolori, soffriamo noi per questo veramente di più? No: perchè questo accrescimento, se mai, è a scapito dell'intensità. E ben per questo il Leopardi notava acutamente che il dolore antico era un dolor disperato, come suol essere in natura, com'è ancora nei popoli barbari e semi-selvaggi o nelle genti della campagna, senza il conforto cioè della sensibilità, senza la dolce rassegnazione alle sventure.

      Facilmente oggi, a gli occhi nostri, se crediamo d'essere infelici, il mondo si converte in un teatro d'universale infelicità? Vuol dire che, invece di sprofondarci nel nostro proprio dolore, noi lo allarghiamo, lo diffondiamo nell'universo. Ci strappiamo la spina, e ci avvolgiamo in una nuvola nera. Cresce la noja, ma si spunta e si attenua il dolore. Però, ecco, e quel tal tedio della vita dei contemporanei di Lucrezio? e quella tal tristezza misantropica di Timone?

      Oh via! è proprio inutile sfoggiare esempii e citazioni. Sono questioni, disquisizioni, argomentazioni accademiche. L'umanità passata non c'è bisogno di cercarla lontano: è sempre in noi, tal quale. Possiamo tutt'al più ammettere che oggi, per questa — se vuolsi — cresciuta sensibilità e per il progresso (ahimè) della civiltà, siano più comuni quelle disposizioni di spirito, quelle condizioni di vita più favorevoli al fenomeno dell'umorismo, o meglio, di un certo umorismo; ma è assolutamente arbitrario il negare che tali disposizioni non esistessero o non potessero esistere in antico.

      A buon conto, Diogene, con la sua botte e la sua lanterna, non è di jeri; e nulla di più serio nel ridicolo e di più ridicolo nel serio. Eccezioni, come dice il Nencioni e ripete l'Arcoleo, Aristofane e Luciano? Ma eccezioni, allora, anche Swift e Sterne. Tutta l'arte umoristica, ripetiamo, è stata sempre ed è tuttavia arte d'eccezione.

      Diverso il pianto, secondo questa critica, e diverso naturalmente anche il riso degli antichi.

      Notissima, la distinzione di Gian Paolo Richter tra comico classico e comico romantico: facezia grossolana, satira volgare, derisione de' vizii e dei difetti, senza alcuna commiserazione o pietà, quello; umore, questo, cioè riso filosofico, misto di dolore, perchè nato dalla comparazione del piccolo mondo finito con la idea infinita, riso pieno di tolleranza e di simpatia.

      Da noi il Leopardi, che ebbe sempre la nostalgia del passato e che nei Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura volle far notare che egli sentiva il dolore non a modo dei romantici, ma a modo degli antichi, cioè il dolore disperato, difese pure il comico antico contro il moderno, il comico antico che «era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e metteva sotto gli occhi, per dir così, un corpo di ridicolo», mentre il moderno «un'ombra, uno spirito, un vento, un soffio, un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare; quello era solido, questo fugace; quello consisteva in immagini, similitudini, paragoni, racconti, insomma cose ridicole; questo in parole, generalmente e sommariamente parlando, e nasce da quella tal composizione di voci, da quello equivoco, da quella tale allusione di parole, da quel giocolino di parole, da quella tal parola appunto — di maniera che, togliete quelle allusioni, scomponete e ordinate diversamente quelle parole, levate quell'equivoco, sostituite una parola in cambio d'un'altra, svanisce il ridicolo».

      E cita l'esempio di Luciano che paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Poi avverte: «Ma forse e senza forse, presentemente, e massime ai francesi, par grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e piacque ai greci, popolo il più civile dell'antichità e ai latini. E può essere che anche Orazio avesse una simile opinione, quando disse male de' sali di Plauto; e in fatti le Satire e le Epistole di Orazio non sono di così solido ridicolo come l'antico comico greco e latino, ma nè anche di gran lunga così sottile come il moderno. Ora, a forza di motti, si è renduto spirituale anche il ridicolo, assottigliato tanto che ormai non è più nè pur liquore, ma un etere, un vapore; e questo solo si stima ridicolo degno delle persone di buon gusto e di spirito e di vero buon tono, e degno del bel mondo e della civile conversazione. Il ridicolo delle antiche commedie nasceva anche molto delle operazioni stesse che erano introdotti a fare i personaggi sulla scena, e quivi ancora era non piccola sorgente di sale, ma pura azione; come nelle Cerimonie del Maffei: commedia piena di vero e antico ridicolo, quel salire di Orazio per la finestra a fine di evitare i complimenti alle porte. Un'altra gran differenza tra il ridicolo antico e il moderno è che quello era preso da cose popolari e domestiche o almeno non della più fina conversazione, la quale poi non esisteva ancor per lo meno così raffinata; ma il moderno, massime il francese, versa principalmente intorno al più squisito mondo, alle cose dei nobili più raffinati, alle vicende domestiche delle famiglie più moderne, ecc., ecc. (come anche proporzionatamente era il ridicolo d'Orazio): sicchè quello era un ridicolo che avea corpo, e, come il filo di un'arma che non sia troppo aguzzo, durò lungo tempo; dove questo, come ha una punta sottilissima, più o meno secondo i tempi e le nazioni, così anche in un batter d'occhio si logora e si consuma, e dal volgo poi non si sente, come il taglio del rasojo a prima giunta».

      Il Leopardi, evidentemente, parla qui dell'esprit francese in contrapposizione del ridicolo classico, senza pensare che questo «esprit de conversation, le talent de faire des mots, le goût des petites phrases vives, fines, imprévues, ingénieuses, dardées avec gaieté ou malice»[13], è classico anch'esso e antichissimo in Francia: Duas res industriosissime persequitur gens Gallorum, rem militarem et argute loqui. Questo esprit nativo in Francia, che si raffina anch'esso a mano a mano e diviene un po' convenzionale, elegante, aristocratico, in certi periodi letterarii, non è certamente l'humour moderno, e tanto meno quello inglese che il Taine gli contrappone, come fatto appunto di cose più che di parole o, sotto un certo aspetto, fatto di buon senso, se — come pensava il Joubert — l'esprit consiste nell'aver molte idee inutili e il buon senso nell'esser provvisto di nozioni necessarie. Non confondiamo dunque.

      Nel 1899 Alberto Cantoni, argutissimo nostro umorista[14], che sentiva profondamente il dissidio interno tra la ragione e il sentimento e soffriva di non poter essere ingenuo come prepotentemente in lui la natura avrebbe voluto, riprese l'argomento in una sua novella critica intitolata Humour classico e moderno[15], nella quale immagina che un bel vecchio rubicondo e gioviale, che rappresenta l'Humour classico, e un ometto smilzo e circospetto, con una faccia un poco sdolcinata e un poco motteggiatrice, che rappresenta l'Humour moderno, s'incontrino a Bergamo innanzi al monumento a Gaetano Donizzetti e là, senz'altro, si mettono a disputare tra loro e poi si lanciano una sfida, si propongono cioè d'andare in campagna lì presso, a Clusone, dove si tiene una fiera, ognuno per conto proprio, come se non si fossero mai visti, e di ritornare poi la sera, lì daccapo, innanzi al monumento di Donizzetti, recando ciascuno le fugaci e particolari impressioni della gita per metterle a paragone. Invece di discorrere criticamente della natura, delle intenzioni, del sapore dell'umorismo antico e del moderno, il Cantoni in questa novella, riferisce vivacemente, in un dialogo

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