Uno, nessuno e centomila. Luigi Pirandello

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Uno, nessuno e centomila - Luigi Pirandello

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Mi vidi. Ero io, là, aggrondato, carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato.

      M'assalì una fierissima stizza e mi sorse la tentazione di tirarmi uno sputo in faccia. Mi trattenni. Spianai le rughe; cercai di smorzare l'acume dello sguardo; ed ecco, a mano a mano che lo smorzavo, la mia immagine smoriva e quasi s'allontanava da me; ma smorivo anch'io di qua e quasi cascavo; e sentii che, seguitando, mi sarei addormentato. Mi tenni con gli occhi. Cercai d'impedire che mi sentissi anch'io tenuto da quegli occhi che mi stavano di fronte; che quegli occhi, cioè, entrassero nei miei. Non vi riuscii. Io mi sentivo quegli occhi. Me li vedevo di fronte, ma li sentivo anche di qua, in me; li sentivo miei; non già fissi su me, ma in se stessi. E se per poco riuscivo a non sentirmeli, non li vedevo piú. Ahimè, era proprio cosí: io potevo vedermeli, non già vederli.

      Ed ecco: come compreso di questa verità che riduceva a un giuoco il mio esperimento, a un tratto il mio volto tentò nello specchio uno squallido sorriso.

      – Sta' serio, imbecille! – gli gridai allora. – Non c'è niente da ridere!

      Fu cosí istantaneo, per la spontaneità della stizza, il cangiamento dell'espressione nella mia immagine, e cosí subito seguí a questo cambiamento un'attonita apatia in essa, ch'io riuscii a vedere staccato dal mio spirito imperioso il mio corpo, là, davanti a me, nello specchio.

      Ah, finalmente! Eccolo là!

      Chi era?

      Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in attesa che qualcuno se lo prendesse.

      – Moscarda... – mormorai, dopo un lungo silenzio.

      Non si mosse; rimase a guardarmi attonito.

      Poteva anche chiamarsi altrimenti.

      Era là, come un cane sperduto, senza padrone e senza nome, che uno poteva chiamar Flik, e un altro Flok, a piacere. Non conosceva nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore, e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le pàlpebre, e non se n'accorgeva.

      Gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura, pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella còrnea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po' rilevato:

      Ecco, era cosí: lo avevano fatto cosí, di quel pelame; non dipendeva da lui essere altrimenti, avere un'altra statura, poteva sí alterare in parte il suo aspetto: radersi quei baffi, per esempio; ma adesso era cosí; col tempo sarebbe stato calvo o canuto, rugoso e floscio, sdentato; qualche sciagura avrebbe potuto anche svisarlo, fargli un occhio di vetro o una gamba di legno; ma adesso era cosí.

      Chi era? Ero io? Ma poteva anche essere un altro! Chiunque poteva essere, quello lì. Poteva avere quei capelli rossigni, quelle sopracciglia ad accento circonflesso e quel naso che pendeva verso destra, non soltanto per me, ma anche per un altro che non fossi io. Perché dovevo esser io, questo, cosí?

      Vivendo, io non rappresentavo a me stesso nessuna immagine di me. Perché dovevo dunque vedermi in quel corpo lì come in un'immagine di me necessaria?

      Mi stava lì davanti, quasi inesistente, come un'apparizione di sogno, quell'immagine. E io potevo benissimo non conoscermi cosí. Se non mi fossi mai veduto in uno specchio, per esempio? Non avrei forse per questo seguitato ad avere dentro quella testa lì sconosciuta i miei stessi pensieri? Ma sí, e tant'altri. Che avevano da vedere i miei pensieri con quei capelli, di quel colore, i quali avrebbero potuto non esserci piú o essere bianchi o neri o biondi; e con quegli occhi lì verdastri, che avrebbero potuto anche essere neri o azzurri; e con quel naso che avrebbe potuto essere diritto o camuso? Potevo benissimo sentire anche una profonda antipatia per quel corpo lì; e la sentivo.

      Eppure, io ero per tutti, sommariamente, quei capelli rossigni, quegli occhi verdastri e quel naso; tutto quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente! Ciascuno se lo poteva prendere, quel corpo lì, per farsene quel Moscarda che gli pareva e piaceva, oggi in un modo e domani in un altro, secondo i casi e gli umori. E anch'io... Ma sí! Lo conoscevo io forse? Che potevo conoscere di lui? Il momento in cui lo fissavo, e basta. Se non mi volevo o non mi sentivo cosí come mi vedevo, colui era anche per me un estraneo, che aveva quelle fattezze, ma avrebbe potuto averne anche altre. Passato il momento in cui lo fissavo, egli era già un altro; tanto vero che non era piú qual era stato da ragazzo, e non era ancora quale sarebbe stato da vecchio; e io oggi cercavo di riconoscerlo in quello di jeri, e cosí via. E in quella testa lì, immobile e dura, potevo mettere tutti i pensieri che volevo, accendere le piú svariate visioni: ecco: d'un bosco che nereggiava placido e misterioso sotto il lume delle stelle; di una rada solitaria, malata di nebbia, da cui salpava lenta spettrale una nave all'alba; d'una via cittadina brulicante di vita sotto un nembo sfolgorante di sole che accendeva di riflessi purpurei i volti e faceva guizzar di luci variopinte i vetri delle finestre, gli specchi, i cristalli delle botteghe. Spengevo a un tratto la visione, e quella testa restava lì di nuovo immobile e dura nell'apatico attonimento.

      Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.

      Ma, all'improvviso, mentre cosí pensavo, avvenne tal cosa che mi riempí di spavento piú che di stupore.

      Vidi davanti a me, non per mia volontà, l'apatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente, arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all'indietro, contrarre le labbra in su e provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare cosí un attimo sospeso e poi crollar due volte a scatto per lo scoppio d'una coppia di sternuti.

      S'era commosso da sé, per conto suo, a un filo d'aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori della mia volontà.

      – Salute! – gli dissi.

      E guardai nello specchio il mio primo riso da matto.

      Dunque, niente: questo. Se vi par poco! Ecco una prima lista delle riflessioni rovinose e delle terribili conclusioni derivate dall'innocente momentaneo piacere che Dida mia moglie aveva voluto prendersi. Dico, di farmi notare che il naso mi pendeva verso destra.

      1a - che io non ero per gli altri quel che finora avevo creduto di essere per me;

      2a - che non potevo vedermi vivere;

      3a - che non potendo vedermi vivere, restavo estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo modo; e io no;

      4a - che era impossibile pormi davanti questo estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo;

      5a - che il mio corpo, se lo consideravo da fuori, era per me come un'apparizione di sogno; una cosa che non sapeva di vivere e che restava lì, in attesa che qualcuno se la prendesse;

      6a - che, come me lo prendevo io, questo mio corpo, per essere a volta a volta quale mi volevo e mi sentivo, cosí se lo poteva prendere qualunque altro per dargli una realtà a modo suo;

      7a - che infine quel corpo per se stesso

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