Ritratti letterari. Edmondo De Amicis

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Ritratti letterari - Edmondo De Amicis

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come un sogno febbrile di otto mesi. Nelle poche ore di sonno, sentiva urlare nella stanza i suoi personaggi, e un rumore continuo e precipitoso, come se gli sfogliassero furiosamente negli orecchi un vocabolario colossale, con le pagine di metallo. Alle quattro della mattina balzava in piedi come spinto su da una molla, balbettando delle frasi sconnesse del suo romanzo, come un delirante. La stanza era già ordinata fin dalla sera, e i panni preparati in modo da potersi vestire in un attimo, e saltar quasi dal letto al tavolino, senza passare per tutti quei petits détails de toilette, che sono un tormento per chi ha nel capo la furia d'un'idea, e danno tempo alla pigrizia di pigliar signorìa sulla volontà. La mattina però aveva la mente velata, non faceva che un lavoro d'ordine: copiare, correggere, preparare. Il grande lavoro veniva dopo, e la vera ispirazione, le pagine facili e ardenti, le ondate luminose della fantasia, la sera, verso le nove, dopo il desinare; e così andava innanzi per buona parte della notte. Ma non distingueva più il dì dalla notte; a un tratto si accorgeva di lavorare da molte ore al lume della candela; improvvisamente, dopo molte ore di assorbimento, yedeva il sole. E così di settimana in settimana, e di mese in mese; dopo giornate intere di tortura, venivan giornate piene di gioie e di trionfi, e poi daccapo umiliazioni e rabbie mortali, e poi nuovi impeti felici d'ispirazioni e di lavoro. E quando scrisse la parola fine rimase sbalordito e quasi spaventato dello sforzo insensato che aveva fatto. E come ne pagò il fio, in seguito! Immediatamente, per rifarsi, si mise a tirar di scherma in casa sua, dalla mattina alla sera, per ore e ore filate, come un matto, fino a cader senza fiato sul pavimento. Ma era tardi; aveva esaurite le forze. — Non di meno — disse — avevo i Rois en exil nella testa; n'ero appassionato; mi rimisi a scrivere. Ah le terribili giornate! Ardevo d'impazienza e d'entusiasmo, e il corpo si rifiutava al lavoro. La mia povera testa cadeva, gli occhi si chiudevano, mi addormentavo sui fogli, mi svegliavo smemorato e spaventato, non raccapezzando dove fossi e quanto avessi dormito; non reggevo più alla menoma fatica; e il mio nuovo romanzo, come sempre accade dell'ultimo, mi pareva così bello! L'idea di non poterlo finire mi uccideva; mi ci rimettevo con sforzi disperati.... inutilmente, e piangevo di dolore e di rabbia! — Poi venne l'inazione forzata, vennero le lunghe ore d'immobilità assoluta e di silenzio; ore desolate e interminabili, in cui il suo bel mondo di fantasmi gli appariva di lontano, come la visione di un paradiso perduto, e la sua cara vita d'artista gli pareva finita per sempre. — «Una notte finalmente....»

      Qui si voltò con molta grazia, e disse vivamente, con la sua voce piena di dolcezza: — «Vous me pardonnerez, monsieur. Ce sont des détails de notre métier, n'est-ce pas? Fra noi altri non sono cose indifferenti.»

      Una notte, all'improvviso, si sentì soffocare, credette di morire, chiamò sua moglie, fece appena in tempo a dirle: — Finis mon bouquin! (finisci il mio libro), ed ebbe uno spaventevole sbocco di sangue, che lo lasciò come morto.

      Poi, lentamente, si ripigliò: ma ora sta in riguardo, e non lavora più così furiosamente come nel primo caldo della gioventù.

      — Finis mon bouquin! — Che c'è di più commovente di questo artista che sul punto di morire, pensa più al suo bel sogno di poeta, che alla propria vita, e dice a sua moglie: — finiscilo tu? — Ma femme — soggiunse poi — connaît l'art autant que moi; avrebbe finito il mio bouquin benissimo; non avrei potuto affidarlo meglio che alle sue mani. — La signora Daudet, infatti, è scrittrice arguta e finissima, e si dice che abbia molta parte nei lavori di suo marito. Si asserisce persino che il manoscritto d'uno dei più applauditi romanzi di Alfonso portasse la firma del marito e della moglie, e che sia stata lei quella che voltò il Daudet alla sua seconda maniera, che lo spinse, cioè, verso il naturalismo dei Goncourt, ingentilito. Tutta la famiglia Daudet è di sangue artistico. Il fratello è romanziere, e il cognato, che fa il giornalista, imita mirabilmente, si dice, lo stile dell'autore di Fromont jeune et Risler aîné.

      Venne poi a parlare del teatro, e delle noie che gli danno le prove d'una commedia ricavata dal suo romanzo Jack; e si capì da quel che disse che è di natura dolce, sì, ma vigorosa e imperiosa quando si tratta di far prevalere le sue intenzioni d'artista ai capricci degli attori cocciuti. Dal suo Jack, poi, fece cadere il discorso sull'Arlésienne, un grazioso idillio drammatico che fu rappresentato al Vaudeville, anni sono, con poca fortuna. E qui mostrò adorabilmente la sua bella natura calda e appassionata d'artista. Egli ci tiene a quella disgraziata Arlésienne. Il dramma avrà dei difetti, ma il pubblico ha avuto dei torti. La sua prima sfortuna è stata quella di presentare quell'idillio al pubblico del Vaudeville. Il teatro era pieno delle cocottes e dei viveurs, che, appunto all'ora della rappresentazione, escono dai caffè e dalle trattorie vicine, coi fumi del vino alla testa, eccitati dai discorsi che tutti immaginano, in una disposizione di animo e di corpo, quale si può pensare, per comprendere la poesia d'un amore nobile e profondo, che finisce nella morte. Risero. Risero specialmente dell'episodio di Balthazar e di madame Nigaud. — È una cosa semplicissima — disse Daudet, e lo raccontò con quella sua voce profonda e tremola, in un modo da cavar le lacrime. È un contadino di vent'anni, Balthazar, buono, di animo onesto e nobile, che s'innamora della sua padrona, e l'ama segretamente e umilmente, tremando che il suo segreto sia scoperto; sottomesso e devoto come uno schiavo, risoluto a morire d'angoscia piuttosto che mancare al suo dovere. E non dice una parola, e neppur la signora a lui, benchè gli legga nell'anima. Solamente, qualche volta, quando egli è solo nei campi, essa gli va a sedere vicino, e lo guarda. Un giorno, bruscamente, gli va incontro e gli dice: — Balthazar, t'amo; vattene! — E lui se ne va. Se ne va lontano, con altri padroni; gli anni passano, non rivede più madame Nigaud, invecchia col suo amore sepolto nel più profondo dell'anima, sempre buono, e un po' triste; ma confortato dalla coscienza d'aver fatto il proprio dovere. Ebbene, dopo cinquant'anni, la signora Nigaud capita dalle sue parti, e si incontrano faccia a faccia, in presenza di molta gente. Rimangono senza parola.... e poi si parlano. — Ne abbiamo avuto del coraggio, non è vero? — si dicono. — Ma Dio non ha voluto che morissimo senza esserci riveduti. Egli ci doveva ben questo per ricompensarci del nostro sacrificio. — Quante volte — dice il vecchio colla voce tremante, sorridendo — io vedevo dai campi il fumo della vostra casa, e mi pareva che mi dicesse: — Vieni, Balthazar, la signora è qui! — Ed io — risponde lei — quando sentivo abbaiare i tuoi cani e ti vedevo di lontano con la tua lunga cappa, ora te lo posso dire, facevo uno sforzo, sai, per non correrti incontro! Ma il nostro dolore è finito ora, non è vero? e possiamo guardarci in viso senza arrossire. Ebbene, Balthazar.... non avresti vergogna di abbracciarmi adesso, vecchia e disfatta dagli anni come sono? No? Qua dunque, stringimi una volta sul tuo cuore, mio povero vecchio, mio bravo e buon Balthazar! Sono cinquant'anni ch'io te lo devo, questo bacio d'amica! — E si gettano singhiozzando l'uno nelle braccia dell'altro. — E quei signori risero — soggiunse il Daudet, tutto vermiglio d'indignazione, — risero sguaiatamente, oltraggiosamente, indecentemente! E il Figaro mi canzonò per venti giorni di seguito, secondo che mi aveva promesso il Villemessant, che tenne scrupolosamente la sua parola. Ma come non hanno capito, in nome di Dio, che quello era vero e sacrosanto e preso dentro alle viscere umane! Ah! io mi sento altiero, vedete, di quelle risate!

      Tutt'a un tratto si mise a ridere anche lui del miglior cuore del mondo, e prese a parlare degli incidenti comici di quella serata. — Erano in vena di ridere, che cosa volete? Un personaggio, facendo una descrizione della campagna, diceva che si sentiva il canto degli ortolani. Fu uno scoppio di risa omeriche. Il canto degli ortolani! L'ortolano, per i parigini, è una ghiottoneria squisita, un piatto, non un uccello. Una platea non può ammettere in nessuna maniera che ci siano degli ortolani vivi e pennuti, che volano e che cantano; non riconosce che degli ortolani in casseruola, con una fetta di lardo sulla schiena. Andatele a parlare del canto degli ortolani! Voi conoscete il canto degli ortolani, non è vero? — E qui, infervorandosi nel suo discorso, da vero artista, per provare che quei disgraziati uccelli cantano anch'essi, prima d'essere serviti coi tartufi, si mise a imitare il loro trillo, come un ragazzo, e a spiegarci che cantano in certe condizioni di tempo e a certe ore; come in altr'ore, nel Bosco di Boulogne, si sente da tutte le parti la nota monotona del cuculo, e imitò la voce del cuculo; il quale gli ricordò altri uccelli, di cui rifece il verso, ridendo sonoramente, già le mille miglia lontano dall'Arlésienne e dal Vaudeville,

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