Il bacio della contessa Savina. Caccianiga Antonio

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Il bacio della contessa Savina - Caccianiga Antonio

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della schiavitù personale colla libertà dello spirito. Sdraiato sul canapè della mia cameretta accendeva uno sigaro e mi metteva in viaggio. La mia fantasia usciva dalla finestra sulle spire del fumo, e volava per l'ampio orizzonte con la rapidità del pensiero. Se potessi rammentarmi quelle peregrinazioni meravigliose, scriverei un bel volume. Mio zio mi destinava all'istruzione, io accettava il suo piano come un mezzo d'emanciparmi, ma mi pareva di sentire in me stesso una voce che mi chiamasse a più alti destini. Quel sentimento d'amore che mi agitava l'anima aveva acceso nella mia mente una scintilla che mi svelava un nuovo mondo; i miei pensieri si elevavano ad un'altezza sublime che, rivelata con l'arte, avrebbe destato la meraviglia universale. L'amore mi additava il cammino della gloria e della fortuna. Avevo incominciato una tragedia, il Lucchino Visconti, ove tentava rivelare gli arcani d'un'anima innamorata e mi pareva che la comparsa del mio lavoro avrebbe introdotto una riforma radicale del teatro italiano. E mi sembrava già di vedere il pubblico, esaltato dall'entusiasmo, portarmi a casa in trionfo.

      All'indomani dovevano naturalmente piovermi addosso gl'inviti, le onorificenze e il denaro; ad ogni produzione l'oro invadeva il mio scrittoio. Una nuova poesia era comparsa alla luce col corteggio della ricchezza; il poeta tradizionale lacero, tapino e ridicolo cedeva il passo al principe delle lettere, del quale tutti ambivano i favori. Egli dava vita alle sue stupende creazioni in una splendida dimora, fra i bronzi, i marmi, le pitture, e il lusso d'un palazzo incantato.

      Con tali presagi nell'animo mi affacciavo alla finestra; gli occhi della mia musa si alzavano, e un fluido celeste mi avvolgeva, come in un nimbo di gloria. Niente mi pareva impossibile nella vita: io sentiva una fiamma che mi rendea onnipotente.

      Un giorno fra gli altri me ne stavo assorto in una di queste estasi eteree, quando la Veronica entrò nella stanza.

      — Daniele, — essa mi disse, — avete pensato che s'avvicina l'inverno, che il freddo incalza, che avete il pastrano sdruscito, gli stivali sgualciti, i calzoni rattoppati?

      — Veronica, — io risposi gravemente, battendomi sul petto, — io tengo qua dentro dei tesori che possono procurarmi tutti gli agi della vita....

      Essa mi guardava con tanto d'occhi spalancati credendo che alludessi al mio portafogli, poi mi domandò ansiosamente:

      — Avete dunque molto denaro in saccoccia?

      — Io?... non ho che cinquanta centesimi....

      — Ma dunque di che tesori mi parlate?

      — Vi parlo dei sentimenti del cuore che ispirano la mia mente... e la rendono capace di produrre quelle opere che attirano l'ammirazione degli uomini, e arricchiscono gli autori. Sono sicuro dell'avvenire!

      — Tanto meglio.... ma l'avvenire è in mano di Dio.... invece i vostri vestiti li tengo nelle mie mani ogni giorno, ne conosco tutti i sdruciti e le mende, e vedo la necessità che il sartore ve ne faccia di nuovi. Monsignore vi vuol bene, ma i canonici non possono conoscere tutti i bisogni della gioventù. Tocca a voi domandare quanto vi manca.... Su via, volete che gliene parli io?...

      — Cara Veronica.... come siete buona!... avete sostituita mia madre sulla terra.... che il cielo vi benedica mille volte.

      E pensando alla mia miseria e all'ottimo cuore di quella donna, io piangeva come un fanciullo. Allora essa mi calmava chiamandomi matto, smemorato, fantastico, epiteti coi quali soleva generalmente esprimermi la sua affezione. Poi correva ad enumerare i miei bisogni allo zio, ed il buon vecchio mi apriva la borsa. Io mi limitava al necessario ed egli, dopo pagate le spese, si lodava della mia discrezione e modestia.

      Così, io passava la vita tranquilla alla superficie, burrascosa nel fondo. Quell'inverno mi fuggì rapidamente; meno qualche ora di scuola e di passeggio, io viveva in casa, ritirato nella mia cameretta, ma col cervello sempre in viaggio. Una finestra e dei libri mi davano maggiori occupazioni, gioie, ansie, affanni, peripezie che non ne provassero i viaggiatori più arditi che investigavano le sorgenti del Nilo o l'interno dell'Africa. Difatti la prospettiva di quella finestra ove stava seduta la contessa Savina corrispondeva per me ai più stupendi panorami del globo, e la mia fantasia percorreva le ridenti regioni dei sogni, più vaghi di qualunque altro paese. E se i viaggiatori avevano a temere i selvaggi e le fiere, io pure aveva da paventare i potenti rivali che circondavano il mio idolo. Essa frequentava le conversazioni, i balli, i teatri, ed io non poteva seguirla che col pensiero; e l'accesa immaginazione la vedeva corteggiata da giovinotti suoi pari nei salotti eleganti, nel palchetto del teatro, o trasportata nelle loro braccia nei vortici delle danze, fra i doppieri ardenti, il profumo dei fiori, e l'ebbrezza d'una musica affascinante.

      Quando alla sera io udiva dalla mia cameretta il rumore della carrozza che la conduceva ai piaceri del mondo, mi sentiva il raccapriccio come un uomo assalito dalla febbre. Quante notti insonni ho passate a raggirarmi nel letto, quanti strani progetti ho concepiti colla fantasia malata, rammentandomi il pugnale d'Otello, e di tutti gli amanti che vendicarono gli oltraggi ricevuti dalle donne adorate! La sola diversione, l'unico conforto dei miei affanni era lo studio assiduo ed intenso.

      La libreria dello zio non mi forniva che i classici, ma un professore che mi voleva bene mi somministrava un'ampia messe di produzioni moderne. Io mi perdeva nelle meditazioni, e passava le lunghe sere del verno avvolto in un vecchio tabarro del Canonico, a leggere ed annotare i più celebrati lavori dello spirito umano: e quando la divina fanciulla, reduce dalle feste del gran mondo, dopo la mezzanotte, saliva alla sua stanza signorile nel palazzo Brisnago, essa poteva vedere il pallido lumicino dello studente che vegliava agghiacciato, per arricchire la mente di quelle cognizioni che innalzano l'uomo sapiente al disopra dei nobili, dei ricchi e degli eletti della fortuna.

      Mi coricavo assai tardi affranto dalla fatica, intirizzito dal freddo, oppresso da pensieri dolorosi e da atroci sospetti, ma all'indomani uno sguardo di quegli occhi rasserenava il mio spirito, e scacciava le ombre dei cupi pensieri, come il sole che sorge scaccia le tenebre e ridona alla terra lo splendore e la vita.

      Tuttavia un dubbio funesto veniva sovente nella solitudine a colpirmi con dolorosi tormenti. Quella fanciulla che con uno sguardo accendeva nel mio cuore una fiamma celeste, che esaltava il mio spirito con ispirazioni sublimi, che mi parlava con l'arcano linguaggio degli occhi, sentiva essa all'unisono colla mia anima, riceveva essa da me le stesse impressioni?... O m'ingannavo nel tradurre il sanscrito del cuore e i geroglifici della passione?... Tale sospetto mi gettava nello sgomento, e mutava i rosei sogni della mia fantasia negli abissi della più cupa disperazione. Allora attendeva ansiosamente la ricomparsa di lei, per rileggere con raddoppiata attenzione in quegli occhi misteriosi, eppur tanto fatali. E immobile al balcone contava le ore che passavano lentamente, fino a che un lieve agitarsi di seriche tende annunziava la presenza della mia sfinge!

      Oh Dio, quali momenti!... Essa guardava altrove, arrestava il suo sguardo sulla via, il mio cuore batteva tanto forte da rompermi il petto, se non lo avessi compresso colla mano, il dubbio terribile stava per diventare certezza, mi sentivo venir meno, e se fosse partita senza alzare lo sguardo, forse mi avrebbero trovato morto al mio posto. Ma essa volgeva la testa tranquillamente a diritta ed a manca, e a poco a poco mi passava davanti col suo sguardo profondo, rapido ma penetrante, che m'immergeva in un'estasi di amore e di delizie. Ah sì!... quello sguardo era una espressione viva e sincera dell'anima, un'espressione che non aveva parole corrispondenti nell'umano linguaggio, era assai più soave d'un profumo, più armonioso d'una melodia, era un fluido supremo che m'invadeva, indefinito, indefinibile, sottile, impalpabile, ma positivo come la luce e l'elettrico.

      Quello sguardo mi rassicurava pienamente con effetto istantaneo, ma poi a poco a poco, a cagione di nuove reazioni, quella persuasione scemava colle ore che passavano, col sole che tramontava, col buio della notte che mette in dubbio ogni cosa. All'indomani nuova prova e nuovo trionfo, indi nuove lotte fra la speranza e la ragione, fra la fede ed il dubbio.

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