In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

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In faccia al destino - Albertazzi Adolfo

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      Ed io scossi le spalle, impaziente:

      — Parla d'altro!

      — Cosa debbo dirle? Andiamo!

      — Raccontami della tua vita in città, quest'inverno. Andavi a scuola?

      — A scuola, io? a diciassette anni? Ho diciassette anni!

      Ne pareva meravigliata essa stessa.

      — E ne sai abbastanza?

      — Di matematica, sì! Oh la maestra di matematica! Per tre mesi — siamo rimaste a Milano tre mesi — tutti i giorni quella seccatura! Io non ne azzeccavo una; le somme non tornavano, le moltiplicazioni peggio che peggio! Come sarà che da me i numeri non si lasciano moltiplicare? Basta; la maestra, poveretta, scuoteva la testa come una tartaruga e sospirava: «Non ha disposizione alla matematica!» Il guaio è che diceva lo stesso la maestra di francese, madame Duret. La conosce madame Duret? No? non la conosce? — (Rideva di gran gusto) —. Immagini un uomo vestito da donna, con una sottana di color malva corta corta, una mantellina nera, un cappello di fil di ferro, il fusto s'intende, ma con il velo e i nastri sossopra che lasciavano vedere il fusto; e un naso, oh che naso! Buona però, tanto buona, Madame Vous-vous?... Sa perchè io la chiamavo così, Madame Vous-vous? Perchè lei diceva: Bonjour, mademoiselle! E io: Bonjour, madame. Comment vous portez? Mi dimenticavo sempre, a posta, il secondo vous. E lei: portez vous! vous! Quelle étourderie!

      — Eppoi?

      — Eppoi cosa?

      Non trovai altra domanda che intorno i divertimenti di lei, all'inverno.

      Conversazioni? Ma che! non andavan da nessuno; non ricevevan nessuno. A teatro sì, qualche volta....; a opere o a commedie, di cui finsi ignorare l'argomento per non aver necessità d'interloquire e per lasciar dire a lei, chiacchierina agile e fervida. Nell'esprimere impressioni lontane e ancora sensibili essa aveva una prontezza insolita, e s'arrestava a quando a quando per esser confermata nel suo entusiasmo. Domandava: — Non è forse un bel dramma? Che bella musica, è vero?

       Ma tosto io non le badai più affatto. Mentre proseguiva a discorrere, io, non so perchè, o perchè talora ella acuisse la voce al tono fanciullesco e da ciò fossi condotto a ripensarla ragazzetta, o perchè in quell'ora i suoi occhi avessero una luce più viva, o perchè la tinta rossa del tramonto mi rappresentasse, d'improvviso, un altro simile tramonto; non so perchè e come, io ebbi l'istantaneo presentimento d'un risveglio in me nel rinnovarsi d'un ricordo. La memoria, repentinamente e spontaneamente ridesta, mi ridiede in quello stato mortale una fugace coscienza di vita.

      Non rammentavo un fatto che importasse, allora, alla mia esistenza; era anzi un fatto minimo che rivedevo e nel quale mi rivedevo con precisione e reintegrazione di circostanze, di azioni, di aspetti, di suoni. Con ogni senso percepii il ricordo.

      E anche oggi lo riprendo e ripeto senza sforzo alcuno; in evidenza, per me, tragica, sebbene agli altri possa parere una futile rimembranza.

      Un giorno d'autunno salivo al poggio dove una volta i frati del vicino convento riposavano dagli ozi della preghiera svagando l'occhio nel paesaggio intorno, ascoltando capinere e rosignoli, odorando effluvii di menta e di ginepro, bevendo aria vitale e dimenticando, paghi, che il paradiso è per dopo la morte. Ma quel giorno, a vespero, il dominio della mia solitudine era stato invaso; e da chi mi dichiararono alcune voci più alte fra il chiasso che mi giunse a mezza costa. Erano i miei amici; ragazzi e ragazze. Che facevano lassù? Quale nobile impresa? Volli sorprenderli. M'inerpicai di traverso; mi celai a spiare tra una macchia.

      Ma bravi! ma bene! Non ci mancava nessuno. Le signorine Marcella Moser e Anna Melvi diricciavano castagne a colpi di pietra e parlavano sommesse; di contro, Guido Learchi, già studente di medicina, zufolava interrompendosi per sgridare, quale direttore all'opera, e finiva di comporre un forno con mattoni e sassi. Gli servivano da manuali Ortensia Moser e Pieruccio Fulgosi, affaticati a raccogliere il combustibile.

      — Là!

      — Nella siepe!

      — Sotto al noce!

      Furettavano dappertutto e per poco non mi scovavano.

      Pieruccio più svelto di tutti ammucchiava foglie e fronde, che Ortensia recava a bracciate.

      Guido protestava:

      — Legna grossa e secca! Con questa non si fan bracie!

      — Ecco! A te! prendi!

      — Che uomini! Un'ora per fare un po' di fuoco! — gridava Ortensia.

      E Learchi a bofonchiarla: — Meh! meh! meh!

      Poi egli diede uno scapaccione a Pieruccio ordinando:

      — Spicciati, tu! Altra legna! legna! dico legna!

      Finchè annunciò: — Pronti! — e appiccò il fuoco. Un clamore d'applausi salutò le prime volute di fumo.

      — Forza! Siete in ordine?

      — Sì, ma non le bracie!

       Quand'ecco Pieruccio venne da lungi con grida più alte:

      — Legna grossa, signori! legna da carbone! — Si traeva dietro una panca.

      — Da bruciare?

      — Sei matto?!

      — Bruciamola! Bruciamola!

      — Non si può! Non è nostra! — protestava Marcella.

      — È rotta!

      — Bene! Va bene, questa!

      — Bruciamola!

      — No!

      — Sì!

      — Sì! Bruciamola!

      Urtoni, strappi, scappellotti, strida.

      E io piombai in mezzo alla mischia.

      Allora! Dopo il breve silenzio della sorpresa:

      — Eh! Chi si vede! Ben arrivato! Buona sera! — Sta bene? — Ma si accomodi! — Che cosa comanda? — Uh, che faccia!

      Sostenendo io, quantunque a fatica, il cipiglio di severità, le tre signorine, raccolte insieme a braccetto per comune difesa, mi risero in faccia; mentre Guido ripeteva inchini e chiedeva:

      — In che possiamo servirla?

      Quieto solo lui, Pieruccio, mi attaccava un riccio nella giacca, alle spalle.

      — Punto primo! — urlai (Oh in che imbroglio mi ero messo!) — Qui si è rubato!

      — Nossignore! — S'inganna! — Non è vero!

      — Lasciatelo dire!

      — Si sono sbattuti i castagni!

      — È falso! — Calunnia! — Calunnia! — Lasciatelo cantare! Ha invidia! —

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