Il Castello Della Bestia. Aurora Russell
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Doveva essere trasalita per la sorpresa, perché Monsieur Hormet catturò il suo sguardo nello specchietto retrovisore.
«Ah, le château è bello, vero?»
Osservando le linee della massiccia struttura, Veronica notò che erano anche sorprendentemente delicate. Anche se grande, era anche un capolavoro architettonico, equilibrato ed elegante. Cercando ancora di abbracciare con lo sguardo ogni parte dello château, rispose con entusiasmo: «Oh sì, assolutamente stupendo!»
Si fermarono proprio davanti ai gradini, e Monsieur Hormet si avvicinò per aiutarla a scendere dalla macchina. L’aria che le accarezzò il viso era più fresca di quella umida e pesante della stazione, e trasportava l’inconfondibile sapore salmastro dell’oceano. Curvò le labbra in un piccolo sorriso quando percepì il lontano infrangersi delle onde sulle rocce. Katrin sarebbe stata felicissima di sapere che la sua ipotesi era stata, almeno in parte, corretta.
«Se vuole seguirmi, Mademoiselle, la accompagno nel salone.» Monsieur Hormet diede un’occhiata alle finestre anteriori e indicò un piccolo movimento all’interno. «Eveline farà sapere a Monsieur Reynard del suo arrivo.»
Piegando il collo nel modo più discreto possibile per guardarsi intorno, Veronica lo seguì su per un gran numero di gradini di pietra, ed entrò nello château. Riuscì solo a intravedere l’enorme atrio d’ingresso prima di percorrere un ampio corridoio che conduceva in una stanza che sembrava una specie di salotto formale. C’erano diversi posti a sedere intorno alla stanza, e lui le fece cenno di accomodarsi su una poltrona dallo schienale diritto, nel gruppo più vicino alle finestre. Anche con la nebbia, si poteva comunque capire che le finestre affacciavano sull’oceano, una distesa grigio-verde di acqua gelida dell’Atlantico; la vista sembrava più maestosa che invitante, e le piaceva molto.
Combattendo l’impulso di premere il naso contro le vetrate, si sedette su una sedia in quello che sperava fosse un atteggiamento professionale e dignitoso. Prese di nuovo la cartellina e attese. C’era un orologio decorato e dorato, che sembrava un’antichità che sarebbe stata perfetta per il museo d’arte di Boston, e il suo ticchettio risuonava nella stanza altrimenti silenziosa. Al click della maniglia della porta che girava, balzò in piedi e si voltò per salutare la persona che le avrebbe fatto il colloquio. La figura che entrò era considerevolmente più bassa e più veloce di quanto si fosse aspettata, però.
Mentre si precipitava verso di lei a tutta velocità, Veronica vide un bambino con una massa di capelli biondo dorato, occhi azzurri e guance rosee indice di buona salute. Il suo viso felice era illuminato da un enorme sorriso. Veronica si preparò per un possibile impatto, ma il bimbo si fermò bruscamente proprio di fronte a lei e la squadrò con curiosità.
«Sei carina» disse in francese, «ma non mi piace il tuo cappotto. Mi hanno insegnato a non dire “mi fa schifo” o “brutto”.» La guardò in attesa.
Veronica soffocò una risata, lanciando uno sguardo al suo cappotto. Era un capo che aveva acquistato per i colloqui, e interiormente concordava che non fosse la cosa più attraente che possedeva, ma si trattava più di una questione di praticità che di moda. Ma comunque...
«Sembra che tu sia stato attento, allora» rispose in francese, aggirando la domanda. Posò sulla sedia la cartellina che teneva ancora in mano, e si accovacciò in modo da essere all’altezza degli occhi del bambino. «Come ti chiami? Io sono Veronica.»
«Jean Philippe. Yvette dice che sei qui per prenderti cura di me, ma solo se piacerai a papà. Maman non c’è più. È morta. Anche il nostro cane è morto. A volte sono triste e piango, ma papà dice che va bene.» Il cuore di Veronica si strinse a quelle parole ingenue, ma dovette sopprimere un’altra risata per quello che lui aggiunse dopo. «Mi hai portato un regalo? Papà mi porta sempre un regalo e lo nasconde in una delle tasche. Anche oncle Marius. È per questo che indossi quel cappotto, per nascondere i regali?» le chiese, osservando il suo abbigliamento con più entusiasmo.
«È un piacere conoscerti, Jean-Philippe» rispose Veronica, poi scosse la testa con rammarico. «Non ero al corrente di questa usanza, quindi oggi niente regali, ma prometto che, se rimango, ti porterò qualcosa la prossima volta che vado in città. Sei d’accordo?»
Lui dondolò la testolina mentre annuiva, i suoi bei capelli biondi luccicarono nonostante la luce fioca di quella giornata uggiosa. «Va bene» concordò. «Spero che tu vada presto in città.»
Quella volta Veronica non avrebbe potuto nascondere il suo sorriso nemmeno se ci avesse provato, quindi non se ne preoccupò. Un altro rumore le fece alzare di nuovo lo sguardo verso la porta, dove notò una giovane donna leggermente preoccupata. Il suo petto si alzava e si abbassava rapidamente, come se avesse corso. Indossava una specie di uniforme, non quella bianca e nera tipica del personale di servizio, ma qualcosa fece pensare a Veronica che potesse essere una domestica o una governante. Lo sguardo che quella donna rivolse a Jean-Philippe era un misto di esasperazione e affetto.
L’uomo entrato subito dietro di lei, però, fece scattare Veronica in piedi e la costrinse a raddrizzare la schiena. Era alto, probabilmente vicino ai due metri, e le spalle e il petto erano ampi e muscolosi. Indossava un abito che doveva essere stato fatto su misura per adattarsi così bene alla sua figura imponente, ed emanava un’aura di puro potere. Sicuro di sé. Avrebbe dovuto essere cieca o completamente incurante per non essere consapevole della prestanza di un uomo simile.
Nonostante la sua stazza e la sua stessa presenza sembrassero riempire la stanza, fu il suo viso ad affascinarla davvero. I capelli scuri e ondulati incorniciavano il volto più attraente che avesse mai visto. Non avrebbe potuto definirlo bello, il suo naso romano era un po’ troppo prominente, ma i suoi lineamenti erano virili, forti e assolutamente stupefacenti. Notò, anche da quella distanza, che i suoi occhi erano di un marrone intenso come il cioccolato fondente fuso, incorniciati da spesse ciglia scure, e sembravano scrutarla dentro dall’altra parte della stanza. Sentì la pelle d’oca salirle sulle braccia e sul collo, e non riuscì a distogliere lo sguardo.
Quando lui cominciò a muoversi, qualsiasi incantesimo l’avesse stregata si ruppe. Con stupore, notò che camminava appoggiandosi a un bastone con passi misurati e che sembravano celare un dolore nascosto.
«Oh, Monsieur, mi dispiace tanto. È scappato via, quando invece avrebbe dovuto seguirmi» si scusò la giovane donna con l’uomo che Veronica immaginò fosse Monsieur Reynard.
Lui inclinò leggermente la testa e, sebbene il suo viso fosse rimasto impassibile, Veronica vi scorse una certa indulgenza.
«Capisco, Yvette. Puoi tornare al tuo lavoro.» Il suo tono era profondo e tenebroso, roco. Si diffuse attraverso la stanza silenziosa, riempiendo ogni angolo, anche se parlava a bassa voce.
La giovane donna fece un piccolo inchino e uscì in fretta dalla stanza con gratitudine, lasciando soli Veronica, Jean-Philippe e Monsieur Reynard.
«Papà!» esclamò il ragazzino, confermando l’ipotesi di Veronica sull’identità dell’uomo. Lo vide fare una smorfia quasi impercettibile quando il suo bambino gli andò a sbattere contro una gamba in una dimostrazione di affetto infantile.
«Vedo che hai incontrato la signorina Carson, figliolo» disse guardando Veronica, mentre arruffava la fine capigliatura del bimbo.
«Oh sì! Ti piace? Può rimanere?»
La domanda cadde pesantemente nella stanza silenziosa, e Veronica