Ndura. Figlio Della Giungla. Javier Salazar Calle
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Per un po' di tempo, che non calcolai, rimasi lì, seduto sul suolo, con le braccia appoggiate sulle ginocchia e la testa in giù, la mente vuota, lasciandomi andare. Rassegnazione, conformismo, abbandono, rinunciare a vivere. L’incidente aereo con la morte di Alex, vedere come crivellavano Juan, l'euforia del serpente e la conseguente delusione, stanchezza, sonno... Troppe cose praticamente in ventiquattro ore, troppe emozioni intense. Perché Juan era stato così stupido ed era uscito correndo così? Perché mi aveva lasciato solo? Almeno saremmo stati noi due e tutto sarebbe stato diverso; ma no, aveva dovuto cercare di scappare in quel modo così... così... Volevo andare a casa, chiudere gli occhi e trovarmi nel mio letto quando li avrei riaperti e tutto sarebbe stato un incubo più realistico del normale, un brutto sogno come qualsiasi altro, un aneddoto da raccontare quando esci con la tua ragazza e i tuoi amici nel pomeriggio. Mi misi a piangere, ma quasi non cadevano lacrime dai miei occhi.
Perso, scoraggiato, deluso e consumato dalla stanchezza e dal sonno. Non sapevo cosa fare. Alla fine, per semplice automatismo, seppellii la lattina che avevo gettato e mi alzai per continuare a camminare, anche se a un ritmo molto più calmo, lasciandomi andare, quasi trascinando i piedi. Camminai e mi fermai a intermittenza fino a quando furono le otto di sera. Le soste erano ogni volta più lunghe, i momenti di camminata sempre più brevi. Usavo il bastone che avevo usato con il serpente come appoggio, alleviando così la pressione sul ginocchio infortunato, anche se in quel momento non sentivo più le gambe. Camminare per camminare, senza nemmeno provare a stabilire bene la mia direzione, dopo tutto, non sapevo con certezza come farlo e potevo quasi dire che non mi importava. Perché avevo dovuto convincerli a venire qui, perché? Non ascoltavo mai nessuno, dovevo sempre uscirmene con la mia. Guarda dove mi aveva portato la mia voglia di controllare tutto, di comandare tutto. Juan, idiota, perché eri uscito correndo così, suicidandoti? Questo era colpa tua, io non avevo niente a che fare con questo. Colpa tua. Tua.
Quando non ne potei più, mangiai una scatola di mele cotogne intera e bevvi la lattina rimasta, nascondendo tutti i resti, inclusa una delle due coperte che mi erano rimaste. Perché ne volevo due? Meno peso portavo meglio era. Inoltre, erano molto calde e quando portavo lo zaino avevo l'impressione che mi stessero arrostendo la schiena, portavo la maglietta incollata permanentemente al corpo per il sudore, il che produceva una sensazione spiacevole. Avevo anche iniziato a provare una costante sensazione di vertigini, forse perché ero disidratato per mancanza di acqua. Non c'era da stupirsi, le bibite avrebbero dovuto dissetare sul momento ma non idratavano molto. L'effetto yo-yo, lo chiamava un mio compagno di classe della scuola, a causa dello zucchero diceva.
Siccome si stava facendo buio e non avevo voglia di tornare a dormire così scomodo su un albero, cercai un posto un po' riparato, con la terra asciutta, fabbricai un esiguo materasso di foglie e rami verdi, mi raggomitolai come potei, coperto dalla piccola coperta e con lo zaino come cuscino e mi addormentai. Avevo trascorso il mio primo giorno intero nella giungla ed ero più che stufo, ero esausto e volevo che tutto questo finisse in tutti i modi.
GIORNO 3
COME COMINCIANO LE MIE SOFFERENZE
Qualcosa mi stava attaccando, sentivo come mi pungeva su tutto il corpo. Mi alzai di scatto, completamente sveglio di colpo e urlando. Guardai le mie mani ed erano coperte di formiche rossastre con la testa molto grande, il mio corpo ne era completamente ricoperto. Mi pungevano di continuo, da tutte le parti. Mi tolsi i vestiti, quasi strappandoli e iniziai a scuotermi il corpo con le mani, saltare, agitarmi e contorcermi come la coda di una lucertola, urlando e gemendo per il dolore. Alcune mi entrarono in bocca, costringendomi a sputare ancora e ancora, altre le sentivo nel naso, nelle orecchie, ovunque. Era come se un intero sciame di api avesse deciso di attaccarmi nello stesso momento. A poco a poco riuscii a sbarazzarmi delle formiche, ma mi ci vollero circa dieci minuti prima che notassi che nessuna di loro correva più impunemente sul mio corpo. Un'infinita colonna di formiche9 attraversava il punto in cui mi ero sdraiato. Tutto il mio corpo era rosso per i colpi che mi ero dato per staccare le formiche e pieno di macchie ancora più rosse per i morsi ricevuti da quei dannati insetti. Tutto mi prudeva così tanto che non sapevo nemmeno da dove cominciare a grattarmi. Sebbene non ne avessi addosso più nessuna, di tanto in tanto avevo l'impressione di notare qualcosa che correva da qualche parte e mi agitavo di nuovo convulsamente.
Quando riuscii a dominare un po' la mia rabbia e frustrazione, presi lo zaino e lo scossi da tutte le formiche, e feci lo stesso con la coperta e i vestiti che avevo sparso per terra. Indossai solo le scarpe da ginnastica e misi il resto nello zaino. Afferrai alcune pietre e alcuni rami e li lanciai furiosamente contro la colonna ordinata, mentre insultavo le formiche. Per un momento persi il controllo, la rabbia mi investì. Sì, le formiche avevano la colpa di tutto, dovevo ucciderle, mi avevano portato a questa stupida situazione e avrebbero pagato per questo. Le pestai ancora e ancora, furioso, frenetico, come posseduto dall’ardore di una distruzione inarrestabile. Alcune mi salirono su per le gambe e mi morsero di nuovo, ma non sentivo più nulla, il dolore aveva cessato di esistere per un momento. Un pensiero solitario nella mia testa: uccidere le formiche. Calciavo, colpivo quelle a terra e schiacciavo quelle che avevo sul corpo con pesanti manate, spiaccicandole contro le mie gambe, le mie braccia o il mio petto. Per alcuni minuti quella fu la mia unica guerra, il mio unico mondo: pestoni, colpi con le mani, urla di furia, di frustrazione soppressa per troppo tempo. Un Gulliver furioso che distrugge il mondo di Lilliput. Poi mi allontanai di qualche passo, crollai per terra e rimasi per un po' come perso, totalmente abbandonato al mio destino, cieco a ciò che stava accadendo intorno a me, ignaro di qualsiasi cosa che non fosse il niente, il vuoto interiore. Alla fine reagì. Durante la notte mi era sembrato di sentire il mormorio di un ruscello vicino, così andai a cercarlo, nudo, riluttante, tremante, con tutto il corpo che mi pungeva, bastone in mano e zaino in spalla. Dietro di me una miriade di formiche schiacciate e molte altre che correvano in giro nella loro danza particolare di follia disorganizzata.
Effettivamente, il mio orecchio non mi aveva ingannato. Un fiume largo circa cinque metri si apriva la strada attraverso la foresta sotto il mio naso. La mia prima intenzione fu quella di togliermi le scarpe e gettarmi in acqua, ma mi ricordai qualcosa sulle sanguisughe, così prima ispezionai attentamente l'acqua sulla riva, permettendo alla prudenza di vincere la mia disperazione per un momento. Il solo pensiero che una sanguisuga potesse attaccarsi al mio corpo, agganciata, succhiandomi il sangue, mi scosse. Toccando l'acqua con la mano, notai che non era così fredda da non poterla sopportare per un po'. Mi sembrò di non vedere nulla, tranne alcuni bellissimi pesciolini rossi, alcuni più colorati di altri; erano troppo piccoli per sfamare e troppo carini per ucciderli. Avevano un corpo allungato e appiattito, la coda divisa in tre parti, quella centrale simile alle piume degli uccelli, gli occhi proporzionalmente grandi rispetto alla testa, avevano una colorazione blu iridescente, ma, quando i raggi del sole si riflettevano su tutto il loro corpo, una gamma incredibile dal blu al viola si sfumava sulle loro squame10. Cercai qualcos'altro come piranha, coccodrilli o qualcosa del genere ma non trovai nulla. Così decisi di farmi un bagno dopo aver bevuto un po' d'acqua.
Entrai un po' in acqua, assicurandomi prima con il bastone che il terreno fosse solido, con le scarpe addosso, perché avevo paura che mi mordesse un insetto o qualcosa mi si conficcasse. Il primo impatto mi causò un brivido per il contrasto dell'acqua con la temperatura esterna, anche se presto mi abituai. Intorno a me volavano alcune libellule dai colori vivaci, con le loro forme allungate e il loro volo veloce e sicuro; c’erano anche molti insetti, che volavano tanto quanto correvano sulla superficie dell'acqua come se fosse una pista di pattinaggio.