Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке. Чезаре Павезе
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Allora gli dissi che nel mondo ne avevo sentite di storie, ma le piú grosse erano queste. Era inutile che trovasse tanto da dire sul governo e sui discorsi dei preti se poi credeva a queste superstizioni come i vecchi di sua nonna. E fu allora che Nuto calmo calmo mi disse che superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza. Ma prima di parlare dovevo ridiventare campagnolo. Un vecchio come il Valino non saprà nient’altro ma la terra la conosceva.
Discutemmo come cani arrabbiati un bel po’, ma lo chiamarono in segheria e io discesi sullo stradone ridendo. Ebbi una mezza tentazione di passare dalla Mora, ma poi faceva caldo. Guardando verso Canelli (era una giornata colorita, serena), prendevo in un’occhiata sola la piana del Belbo, Gaminella di fronte, il Salto di fianco, e la palazzina del Nido, rossa in mezzo ai suoi platani, profilata sulla costa dell’estrema collina. Tante vigne, tante rive, tante coste bruciate, quasi bianche, mi misero voglia di essere ancora in quella vigna della Mora, sotto la vendemmia, e veder arrivare le figlie del sor Matteo col cestino. La Mora era dietro quegli alberi verso Canelli, sotto la costa del Nido.
Invece traversai Belbo, sulla passerella, e mentre andavo rimuginavo che non c’è niente di piú bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore. E di nuovo, guardandomi intorno, pensavo a quei ciuffi di piante e di canne, quei boschetti, quelle rive – tutti quei nomi di paesi e di siti là intorno – che sono inutili e non danno raccolto, eppure hanno anche quelli il loro bello – ogni vigna la sua macchia – e fa piacere posarci l’occhio e saperci i nidi. Le donne, – pensai, – hanno addosso qualcosa di simile.
Io sono scemo, dicevo, da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano. Mi ricordai la delusione ch’era stata camminare la prima volta per le strade di Genova – ci camminavo nel mezzo e cercavo un po’ d’erba. C’era il porto, questo sí, c’erano le facce delle ragazze, c’erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov’erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo piú di saperla.
X
Se mi mettevo a pensare a queste cose non la finivo piú, perché mi tornavano in mente tanti fatti, tante voglie, tanti smacchi passati, e le volte che avevo creduto di essermi fatta una sponda, di avere degli amici e una casa, di potere addirittura metter su nome e piantare un giardino. L’avevo creduto, e mi ero anche detto «Se riesco a fare questi quattro soldi, mi sposo una donna e la spedisco col figlio in paese. Voglio che crescano laggiú come me». Invece il figlio non l’avevo, la moglie non parliamone – che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnío di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte.
Il fatto è che Cinto – come me da ragazzo – queste cose non le sapeva, e nessuno nel paese le sapeva, se non forse qualcuno che se n’era andato. Se volevo capirmi con lui, capirmi con chiunque in paese, dovevo parlargli del mondo di fuori, dir la mia. O meglio ancora non parlarne: fare come se niente fosse e portarmi l’America, Genova, i soldi, scritti in faccia e chiusi in tasca. Queste cose piacevano – salvo a Nuto, si capisce, che cercava lui di capir me.
Vedevo gente dentro l’Angelo, sul mercato, nei cortili. Qualcuno veniva a cercarmi, mi chiamavano di nuovo «quello del Mora». Volevano sapere che affari facevo, se compravo l’Angelo, se compravo la corriera. In piazza mi presentarono al parroco, che parlò di una cappelletta in rovina; al segretario comunale, che mi prese in disparte e mi disse che in municipio doveva esserci ancora la mia pratica, se volevamo far ricerche. Gli risposi ch’ero già stato in Alessandria, all’ospedale. Il meno invadente era sempre il Cavaliere, che sapeva tutto sull’antica ubicazione del paese e sulle malefatte del passato podestà.
Sullo stradone e nelle cascine ci stavo meglio, ma neanche qui non mi credevano. Potevo spiegare a qualcuno che quel che cercavo era soltanto di vedere qualcosa che avevo già visto? Vedere dei carri, vedere dei fienili, vedere una bigoncia, una griglia, un fiore di cicoria, un fazzoletto a quadrettoni blu, una zucca da bere, un manico di zappa? Anche le facce mi piacevano cosí, come le avevo sempre viste: vecchie dalle rughe, buoi guardinghi, ragazze a fiorami, tetti a colombaia. Per me, delle stagioni eran passate, non degli anni. Piú le cose e i discorsi che mi toccavano eran gli stessi di una volta – delle canicole, delle fiere, dei raccolti di una volta, di prima del mondo – piú mi facevano piacere. E cosí le minestre, le bottiglie, le roncole, i tronchi sull’aia.
Qui Nuto diceva che avevo torto, che dovevo ribellarmi che su quelle colline si facesse ancora una vita bestiale, inumana, che la guerra non fosse servita a niente, che tutto fosse come prima, salvo i morti.
Parlammo anche del Valino e della cognata. Che il Valino adesso dormisse con la cognata era il meno – che cosa poteva fare? – ma in quella casa succedevano cose nere: Nuto mi disse che dalla piana del Belbo si sentivano le donne urlare quando il Valino si toglieva la cinghia e le frustava come bestie, e frustava anche Cinto – non era il vino, non ne avevano tanto, era la miseria, la rabbia di quella vita senza sfogo.
Avevo saputo anche la fine di Padrino e dei suoi. Me l’aveva raccontata la nuora del Cola, quel tale che voleva vendermi la casa. A Cossano, dov’erano andati a finire coi quattro soldi del casotto, Padrino era morto vecchio vecchissimo – pochi anni fa – su una strada, dove i mariti delle figlie l’avevano buttato. La minore s’era sposata ragazza; l’altra, Angiolina, un anno dopo – con due fratelli che stavano alla Madonna della Rovere, in una cascina dietro ai boschi. Lassú erano vissute col vecchio e coi figli; facevano l’uva e la polenta, nient’altro; il pane scendevano a cuocerlo una volta al mese, tant’erano fuorimano. I due uomini lavoravano forte, sfiancavano i buoi e le donne; la piú giovane era morta in un campo ammazzata dal fulmine, l’altra, Angiolina, aveva fatto sette figli e poi s’era coricata con un tumore nelle costole, aveva penato e gridato tre mesi – il dottore saliva lassú una volta all’anno —, era morta senza nemmeno vedere il prete. Finite le figlie, il vecchio non aveva piú nessuno in casa che gli desse da mangiare e si era messo a girare le campagne e le fiere; il Cola l’aveva ancora intravisto, con un barbone bianco e pieno di paglie, l’anno prima della guerra. Era morto finalmente anche lui, sull’aia di una cascina, dov’era entrato a mendicare.
Cosí era inutile che andassi a Cossano a cercare le mie sorellastre, a vedere se si ricordavano ancora di me. Mi restò in mente l’Angiolina distesa a denti aperti, come sua madre quell’inverno ch’era morta.
Andai invece un mattino a Canelli, lungo la ferrata, per la strada che ai tempi della Mora avevo fatto tante volte. Passai sotto il Salto, passai sotto il Nido, vidi la Mora coi tigli che toccavano il tetto, il terrazzo delle ragazze, la vetrata, e l’ala bassa dei portici dove stavamo noialtri. Sentii voci che non conoscevo, tirai via.
A Canelli entrai per un lungo viale che ai miei tempi non c’era, ma sentii subito l’odore – quella punta di vinacce, di arietta di Belbo e di vermut. Le stradette erano le stesse, con quei fiori alle finestre, e le facce, i fotografi, le palazzine. Dove c’era piú movimento era in piazza – un nuovo bar, una stazione di benzina, un va e vieni di motociclette nel polverone. Ma il grosso platano era là. Si capiva che i soldi correvano sempre.
Passai la mattinata in banca e alla posta. Una piccola città – chi sa, intorno, quante altre ville e palazzotti sulle colline. Da ragazzo non mi ero sbagliato, nel mondo i nomi di Canelli contavano, di qui si apriva una finestra spaziosa. Dal ponte di Belbo guardai la valle, le colline basse verso