L'innocente. Gabriele D'Annunzio
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Читать онлайн книгу L'innocente - Gabriele D'Annunzio страница 6
– Fa caldo qui. È vero? Ho gli orecchi che mi scottano.
E si strinse la testa fra le palme, per sentire il bruciore. Il lume, che ardeva a lato del letto, rischiarava intensamente la lunga linea del viso; faceva rilucere tra il folto de’ capelli castagni alcuni fili d’oro chiaro, ove l’orecchio piccolo e fine, acceso alla sommità, traspariva.
A un punto, mentre io aiutavo a sparecchiare (mia madre era uscita, e la cameriera anche, per un momento, e stavano nella stanza attigua), ella chiamò sottovoce:
– Tullio!
E, con un gesto furtivo attirandomi, mi baciò su una gota.
Ora, non doveva ella con quel bacio riprendermi interamente, anima e corpo, per sempre? Quell’atto, in lei così sdegnosa e così fiera, non significava che ella voleva tutto obliare, che aveva già tutto obliato per rivivere con me una vita nuova? Avrebbe potuto ella riabbandonarsi al mio amore con più grazia, con maggior confidenza? La sorella ridiventava l’amante a un tratto. La sorella impeccabile aveva conservato nel sangue, nelle più segrete vene, la memoria delle mie carezze, quella memoria organica delle sensazioni, così viva nella donna e così tenace. Ripensando, quando mi ritrovai solo, ebbi interrottamente alcune visioni di giorni lontani, di sere lontane. «Un crepuscolo di giugno, caldo, tutto roseo, navigato da misteriosi profumi, terribile ai solitarii, a coloro che rimpiangono o che desiderano. Io entro nella stanza. Ella è seduta presso alla finestra, con un libro su le ginocchia, tutta languida, pallidissima, nell’attitudine di chi sia per venir meno. – Giuliana! – Ella si scuote, si risolleva. – Che fai? – Risponde: – Nulla. – E un’alterazione indefinibile, come una violenza di cose soffocate, passa nei suoi occhi troppo neri.» Quante volte, dal giorno della triste rinunzia, ella aveva patito nella sua povera carne quelle torture? Il mio pensiero s’indugiò intorno alle imagini suscitate dal piccolo fatto recente. La singolare eccitazione mostrata da Giuliana mi rammentò certi esempi della sua sensibilità fisica straordinariamente acuta. La malattia, forse, aveva aumentata, esasperata quella sensibilità. Ed io pensai, curioso e perverso, che avrei veduto la debole vita della convalescente ardere e struggersi sotto la mia carezza; e pensai che la voluttà avrebbe avuto quasi un sapore di incesto. «Se ella ne morisse?» pensai. Certe parole del chirurgo mi tornavano alla memoria, sinistre. E, per quella crudeltà che è in fondo a tutti gli uomini sensuali, il pericolo non mi spaventò ma mi attrasse. Io m›indugiai ad esaminare il mio sentimento con quella specie di amara compiacenza, mista di disgusto, che portavo nell›analisi di tutte le manifestazioni interiori le quali mi paressero fornire una prova della malvagità fondamentale umana. «Perché l›uomo ha nella sua natura questa orribile facoltà di godere con maggiore acutezza quando è consapevole di nuocere alla creatura da cui prende il godimento? Perché un germe della tanto esecrata perversione sàdica è in ciascun uomo che ama e che desidera?»
Questi pensieri, più che il primitivo spontaneo sentimento di bontà e di pietà, questi pensieri obliqui mi condussero in quella notte a raffermare il mio proposito in favore della illusa. L›Assente mi avvelenava anche di lontano. Per vincere la resistenza del mio egoismo, ebbi bisogno di contrapporre all›imagine della deliziosa depravazione di quella donna l›imagine di una nuova rarissima depravazione che io mi promettevo di coltivar con lentezza nella onesta securità della mia casa. Allora, con quell›arte quasi direi alchimistica che io aveva nel combinare i varii prodotti del mio spirito, analizzai la serie degli «stati d’animo» speciali in me determinati da Giuliana nelle diverse epoche della nostra vita comune, e ne trassi alcuni elementi i quali mi servirono a construrre un nuovo stato, fittizio, singolarmente adatto ad accrescere l’intensità di quelle sensazioni che io voleva esperimentate. Così, per esempio, allo scopo di rendere più acre quel «sapore d’incesto» che m’attraeva eccitando la mia fantasia scellerata, io cercai di rappresentarmi i momenti in cui più profondo era stato in me il «sentimento fraterno» e più schietta mi era parsa l’attitudine di sorella in Giuliana.
E chi s’indugiava in queste miserabili sottigliezze di maniaco era l’uomo medesimo che poche ore innanzi aveva sentito il suo cuore tremare nella semplice commozione della bontà, al lume di un sorriso impreveduto! Di tali crisi contradittorie si componeva la sua vita: illogica, frammentaria, incoerente. Erano in lui tendenze d’ogni specie, tutti i possibili contrarii, e tra questi contrarii tutte le gradazioni intermedie e tra quelle tendenze tutte le combinazioni. Secondo il tempo e il luogo, secondo il vario urto delle circostanze, d’un piccolo fatto, d’una parola, secondo influenze interne assai più oscure, il fondo stabile del suo essere si rivestiva di aspetti mutevolissimi, fuggevolissimi, strani. Un suo speciale stato organico rinforzava una sua speciale tendenza; e questa tendenza diveniva un centro di attrazione verso il quale convergevano gli stati e le tendenze direttamente associati; e a poco a poco le associazioni si propagavano. Il suo centro di gravità allora si trovava spostato e la sua personalità diventava un’altra. Silenziose onde di sangue e d’idee facevano fiorire sul fondo stabile del suo essere, a gradi o ad un tratto, anime nuove. Egli era multanime.
Insisto su l’episodio perché veramente segna il punto decisivo.
La mattina dopo, al risveglio, non conservavo se non una nozione confusa di quanto era accaduto. La viltà e l›angoscia mi ripresero appena ebbi sotto gli occhi un›altra lettera di Teresa Raffo, con cui ella mi confermava il convegno a Firenze pel 21, dandomi istruzioni precise. Il 21 era sabato, e giovedì 19 Giuliana si levava per la prima volta. Io discussi a lungo, con me stesso, tutte le possibilità. Discutendo, incominciai a transigere. «Sì, non c›è dubbio: è necessaria una rottura, è inevitabile. Ma in che modo io romperò? con quale pretesto? Posso io annunziare il mio proposito a Teresa con una semplice lettera? La mia ultima risposta era ancóra calda di passione, smaniosa di desiderio. Come giustificare questo mutamento subitaneo? Merita la povera amica un colpo tanto inaspettato e brutale? Ella mi ha molto amato, mi ama; ha sfidato per me, un tempo, qualche pericolo. Io l›ho amata… l›amo. La nostra grande e strana passione è conosciuta; invidiata anche; insidiata anche… Quanti uomini ambiscono a succedermi! Innumerevoli.» Numerai rapidamente i rivali più temibili, i successori più probabili, considerandone le figure imaginate. «C›è forse a Roma una donna più bionda, più affascinante, più desiderabile di lei?» La stessa accensione repentina, avvenuta la sera innanzi nel mio sangue, mi percorse tutte le vene. E il pensiero della rinunzia volontaria mi parve assurdo, inammissibile. «No, no, non avrò mai la forza; non vorrò, non potrò mai.»
Sedata la turbolenza, proseguii il vano dibattito, pur avendo in fondo a me la certezza che, giunta l›ora, non avrei potuto non partire. Ebbi però il coraggio, uscendo dalla stanza della convalescente, essendo ancóra tutto vibrante di commozione, ebbi il supremo coraggio di scrivere a quella che mi chiamava: «Non verrò». Inventai un pretesto; e, mi ricordo bene, quasi per istinto lo scelsi tale che a lei non sembrasse troppo grave. – Speri dunque che ella non curi il pretesto e t›imponga di partire? – chiese qualcuno dentro di me. Non sfuggii a quel sarcasmo; e un›irritazione e un›ansietà atroci s›impadronirono di me, non mi diedero tregua. Facevo sforzi inauditi per dissimulare, al conspetto di Giuliana e di mia madre. Evitavo studiosamente di trovarmi solo con la povera illusa; e ad ogni tratto mi pareva di leggere nei suoi miti umidi occhi il principio di un dubbio, mi pareva di veder passare qualche ombra su la sua fronte pura.
Il giorno di mercoledì ebbi un telegramma imperioso e minaccioso (non era quasi aspettato?): «O tu verrai o non mi vedrai più. Rispondi». E io risposi: «Verrò».
Sùbito dopo quell›atto, commesso con quella specie di sovreccitazione inconsciente che accompagna tutti gli atti decisivi della vita, io provai un particolare sollievo, vedendo gli avvenimenti determinarsi. Il senso della mia irresponsabilità, il senso della necessità di ciò che accadeva ed era per accadere divennero in me profondissimi. «Se, pur conoscendo il male che io faccio e pur condannandomi in me medesimo, io non posso fare altrimenti, segno è che obbedisco a una forza superiore ignota. Io sono la vittima di un Destino crudele, ironico ed invincibile.»
Nondimeno,