L'assassinio di Via Belpoggio. Italo Svevo
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– Dammi i miei denari – gli aveva detto Antonio fermandosi tutt’ad un tratto. Avendo già preso la decisione di non restituire il pacco, egli dubitò che Antonio non l’avesse indovinata e intanto non fece altro che un atto designato a distruggere in costui il sospetto. Stese la sinistra a porgergli il pacco ben sapendo ch’erano tanto distanti uno dall’altro che le loro mani non giungevano a toccarsi. Antonio si avvicinò subito troppo e in parte la violenza del colpo che ricevette derivò dal suo movimento verso il ferro. Già si piegava e non ancora aveva compreso ciò che gli succedeva. Portò le mani alla ferita e le ritirò bagnate di sangue. Gettò un urlo e stramazzò a terra ove subito s’irrigidì. Strano! In quell’urlo, la voce di Antonio era divenuta seria e solenne; non era più quella che fino ad allora aveva balbettato le parole dell’imbecille e dell’ubriaco: «Gli accadeva infatti cosa molto seria al povero Antonio», pensò Giorgio seriamente.
Bruscamente venne tolto ai suoi sogni. Con passo rapido era entrata una guardia ed era andata direttamente alla dispensa. A Giorgio si gelò il sangue nelle vene. Lo cercavano diggià? Stette fermo vincendo il movimento istintivo che lo avrebbe gettato sulla via, ma poi, osservando la vivacità con la quale la guardia parlava con l’impiegato, gli parve di indovinare ch’essa era venuta precipitosamente a dare l’ordine di non lasciarlo partire e uscì dall’atrio senza far rumore in modo che persino le due friulane vicinissime alla porta non s’accorsero della sua uscita.
Nell’oscurità della piazza ebbe tanta calma da dubitare che quella sua fuga fosse giustificata ma non tanto da ritornar nell’atrio. Risolse di fermarsi per qualche tempo a quel posto sperando che la sua fortuna gli avrebbe dato qualche altra indicazione per poter orientarsi. Non era piccola risoluzione o di facile esecuzione neppure quella di rimanere là fermo, perché calmo non si sarebbe sentito che obbedendo al suo istinto e correndo all’impazzata lontano da quel luogo. La vista di persona che forse poteva avere il mandato di arrestarlo era bastata a togliergli tutta l’audacia di cui poco prima s’era gloriato. Cercò una posizione naturale per dare anche meno nell’occhio e si sedette su una scalinata. Si sentiva a disagio così, ma sapeva che quella era una posizione naturale perché pochi giorni prima, dopo aver desinato abbondantemente una volta in quarant’otto ore, s’era seduto sui gradini di una chiesa e aveva potuto osservare che i passanti non lo vedevano.
Partire? Giocare d’audacia e partire alla cieca, senza curarsi di sapere se alla partenza stessa o alla prossima stazione sarebbe stato fermato? Lo fermò più che questo dubbio, l’orrore di quelle ore di un’angoscia che da poco conosceva.
Travestì la sua paura in un ragionamento.
«Partire significava fuggire e la fuga era una confessione. Se fosse stato colto nella fuga era perduto senza misericordia».
Sarebbe rimasto, e non gli mancarono gli argomenti neppure per rendere ragionevole il suo desiderio di non allontanarsi affatto dalla città. Chi poteva rintracciarlo? Due o tre persone che non lo conoscevano lo avevano veduto con Antonio e dalla parte proprio opposta a quella ove abitava.
Ma dopo quella prima vigliaccheria non si sentì più capace di audacie. Un’audacia utile gli veniva consigliata dal suo mobile cervello, ma anche mentre che con essa si baloccava, neppure per un istante non ebbe l’intenzione di porla ad esecuzione. Lo torturava una grande curiosità di sapere quello che la gente sapesse dell’assassinio e quali ipotesi facesse sull’assassinio. Egli avrebbe potuto portarsi di nuovo sul luogo del misfatto e informarsi con cautela. Ma a quest’uopo bisognava naturalmente parlare dell’assassinio e forse con guardie… tutta roba da far rizzare i capelli in testa.
No! Sarebbe ritornato immediatamente a quella specie di tana che da oltre un anno gli serviva d’abitazione e per lungo tempo non l’avrebbe abbandonata. Avrebbe continuato a fare la vita che aveva fatto fino allora, concedendosi soltanto quelle comodità che non potevano dare nell’occhio.
Per andare alla sua abitazione in Barriera vecchia egli avrebbe dovuto passare la spaziosa via del Torrente. Un’insormontabile paura della luce glielo impedì e spiegando a se stesso che la sua paura era cautela, infilò una viuzza solitaria che lo portò sulla collina adiacente ad una via larga ma fuori di mano, poco frequentata a quell’ora e poco illuminata. Poi con un giro enorme, sempre preferendo le vie più oscure, arrivò all’altra parte della città. Si fermò dinanzi ad una porta per uno scalino più bassa della via. Entrò, chiuse dietro a sé la porta, e nella profonda oscurità si sentì subito tranquillo. Egli aveva commesso un errore, quella passeggiata alla stazione, e, ritornato salvo in casa, gli parve di averlo annullato.
Là nessuno sapeva del suo tentativo di fuga; in uno dei canti della stanza sentiva russare Giovanni, probabilmente ubbriaco.
Cercò a tastoni il suo materasso, vi si stese e si spogliò. Cacciò la giubba nella quale v’erano i denari, sotto il guanciale e s’addormentò dopo aver brancolato verso il sonno in una fantasia disordinata. Non gli sembrava di essere stato lui l’uccisore. Quella via lontana ch’egli fuggendo aveva guardato anche una volta, l’assassinato che per sì breve tempo aveva conosciuto e quella fuga alla stazione, gli balzavano bensì dinanzi alla mente, ma senza commuoverlo o spaurirlo. Nella sua immensa stanchezza gli parve che l’oscurità in cui si trovava non avesse a diradarsi mai più. Chi sarebbe venuto a cercarlo là?
II
Giorgio nella triste società nella quale viveva, veniva chiamato il signore. Non doveva questo nomignolo alle sue maniere che pur si tradivano superiori a quelle degli altri ma più al disprezzo ch’egli dimostrava per le abitudini e i divertimenti dei suoi compagni. Costoro all’osteria erano felici mentre Giorgio vi entrava svogliato, vi stava per lo più silenzioso, e quanto più beveva tanto più triste diveniva. Il volgo ha un gran rispetto per la gente che non si diverte e Giorgio accorgendosi dell’impressione che produceva affettava maggior tristezza di quanto realmente sentisse.
In fondo la sua storia era molto semplice e solita, né egli aveva il passato splendido che voleva far credere. Gli studi di cui si vantava erano stati fatti in due classi liceali a percorrere le quali aveva messo cinque anni. Poi aveva abbandonato le scuole e in brevissimo tempo aveva dilapidato lo scarso peculio della madre. Fece vari tentativi per conservarsi il posto di borghese colto a cui la madre aveva tentato di portarlo, ma invano, perché non trovò altro impiego che di facchino. Non potendola mantenere aveva abbandonato la madre e viveva in quella stalla con altro facchino, certo Giovanni, lavorando, quando era molto attivo, due o tre giorni per settimana.
Era malcontento di sé e degli altri. Lavorava brontolando, brontolava quando riceveva la mercede e non sapeva quietarsi neppure nelle sue lunghe ore d’ozio.
Ricco non era stato mai, ma s’era trovato in condizioni nelle quali aveva potuto sognare di arrivare a stato migliore e altri a lui d’intorno, la madre principalmente, avevano sognato con lui e, certo, erano stati questi sogni e l’amarezza di vederne sempre più lontana la realizzazione che avevano costato la vita ad Antonio.
Si svegliò con un sussulto in seguito ad un grande rumore. Giovanni stava vestendosi, ed essendosi messo per errore uno stivale di Giorgio, bestemmiando se l’era levato e l’aveva gettato con violenza a terra.
Giorgio finse di dormire ancora e per proposito respirando rumorosamente ripensò con sorpresa al suo delitto. Se non fosse già stato commesso probabilmente egli non avrebbe avuto il coraggio di commetterlo, ma giacché era cosa fatta e ch’egli coi nervi quietati dal lungo riposo si trovava in quel luogo dimenticato da tutti, al sicuro, poggiando la testa sul suo tesoro, non provò né rimpianto né rimorso. Questo fu il primo sentimento in quella lunga giornata.
Giovanni